«Un uomo è ricco in proporzione del numero di cose delle quali può fare a meno»
Henry David Thoreau, Walden, ovvero vita nei boschi

giovedì 27 giugno 2013

Silvano Agosti per la decrescita



«Improvvisamente ho assistito al miracolo di una società nascente, a misura d’uomo, dove ognuno sembra poter gestire il proprio destino e la serenità permanente non è un’utopia, ma un bene reale e comune. Qui sembra essere accaduto tutto ciò che negli altri paesi del mondo, da secoli, non riesce ad accadere.

[…]

Qui in Kirghisia, in ogni settore pubblico o privato, non si lavora più di tre ore al giorno, a pieno stipendio, con la riserva di un’eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 o 21 ore della gionrata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore, alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili. La produttività si è così triplicata, dato che una persona felice sembra essere in grado di produrre, in un giorno, più di quanto un essere sottomesso e frustrato riesce a produrre in una settimana. In questo contesto, il concetto di “ferie” appare goffo e perfino insensato, qui dove tutto sembra organizzato per festeggiare ogni giorno la vita.

[…]

La corruzione politica si è azzerata perché in questo Paese, chi appartiene all’apparato governativo, esercita il proprio ruolo in forma di “volontariato”, semplicemente continuando a mantenere per tutta la durata del mandato politico lo stesso stipendio che percepiva nella sua precedente attività.

[…]

Qui in Kirghisia, la possibilità di dedicare quotidianamente alla vita almeno mezza giornata ha consentito la realizzazione di rapporti completamente nuovi tra padri e figli, tra colleghi di lavoro e vicini di casa. Finalmente i genitori hanno il tempo di conoscersi veramente tra loro e di frequentare i propri figli. I parchi sono ogni giorno ricolmi di persone e il traffico stradale è oltre un quattro volte inferiore, dato il variare degli orari di lavoro.

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Certo, tutto ciò può sembrare incredibile a chi, come voi cari amici, è costretto a credere che l’attuale organizzazione dell’esistenza in occidente sia la sola possibile»

Silvano Agosti, Lettere dalla Kirghisia

mercoledì 19 giugno 2013

Evoluzione dei modelli alternativi




Ad oggi sono tanti i modelli alternativi di sistema teorizzati, solo pochi hanno avuto larga diffusione e solo pochissimi vengono presi ora in considerazione per possibili tentativi di attuazione pratica. Prendendo in analisi gli elementi fondanti i vari modelli di pensiero si possono evidenziare le similitudini e le differenze in ognuno di essi ed è possibile ipotizzare una classificazione, del tutto generale e senza pretese, in base al livello evolutivo di questi modelli, traendone alcune conclusioni importanti. 

Dalla mia analisi ho realizzato questa classificazione dei modelli economici-sociali alternativi cominciando da quello che ritengo meno evoluto a quello più evoluto:

- Green economy
- Capitalismo naturale
- Blue economy

- Decrescita felice 
- Ecologia Profonda
- Decrescita Felice e Rivoluzione Umana


Naturalmente l’obiettivo di questi sistemi è lo stesso, o almeno dovrebbe, ovvero la cosiddetta sostenibilità ambientale, economica e sociale: in altre parole la capacità del modello di rispondere alle esigenze umane in termini di felicità e benessere senza impedire che le generazioni future possano fare altrettanto. In fin dei conti, la sostenibilità è l’unico modello che rispetta la vita e la sostiene, e non ci dovrebbe essere bisogno di aggiungere altro. È tuttavia indiscutibile che negli ultimi secoli ci siamo discostati sempre più dalla sostenibilità fino ad arrivare a una situazione probabilmente irreversibile, almeno senza gravi danneggiamenti all’intera ecosfera. Per riportarci sulla strada della sostenibilità occorre quindi un percorso a tappe forzate, in cui il cambiamento non dovrà essere solo a livello della tecnica, ma anche e soprattutto sul piano culturale e spirituale. 

I primi tre modelli che ho riportato sono modelli prettamente tecnici, ovvero che riguardano questioni tecniche e raramente vanno a interessare anche l’ambito culturale. La caratteristica che hanno in comune è senza dubbio la loro stretta parentela con il concetto di sviluppo sostenibile, quindi un tipo di sviluppo con delle accortezze che prima non aveva. Rappresenta la prima forma di cambiamento del sistema, ma forse anche la più subdola in quanto cerca in qualche modo di riparare ai danni dello sviluppo contrapponendo alcune azioni riparatrici, rientrando però nella logica del compromesso che ostacola l’evoluzione del modello stesso. In tutti e tre i modelli c’è ancora una fede cieca nella scienza e nella tecnologia che risolveranno qualsiasi problema l’uomo si trovi di fronte nonché l’idolatria del mito della crescita, o sviluppo o progresso, come si preferisce chiamarlo. È ovvio che in questo caso sarebbe più corretto, semanticamente, parlare di sviluppo meno insostenibile, piuttosto che di sviluppo sostenibile. Mentre la green economy punta principalmente alla sostituzione delle fonti tradizionali con le fonti rinnovabili, senza dar risalto ai loro limiti e ai loro aspetti problematici, il capitalismo naturale pone l’accento su l’aumento dell’efficienza dei sistemi di produzione e sulla possibilità di imitare la natura nel progettare sistemi tecnici, punto che verrà preso come bandiera dell’economia blu di Gunter Pauli. Non viene messa in discussione la cultura della crescita e dell’illimitatezza delle risorse, pervasa da un forzato ottimismo nelle capacità razionali dell’uomo. 

Gli altri tre modelli invece li ho raccolti sotto la denominazione di sostenibilità, in quanto il passaggio fondamentale che avviene a livello culturale è quello di uscire totalmente dall’ideologia della crescita, o sviluppo o progresso che sia. Lo sviluppo non è più contemplato non perché si neghi l’importanza di migliorare o di progredire, inneggiando pertanto all’immobilismo o addirittura alla regressione, piuttosto perché non si ritiene più un elemento culturale fondamentale, perciò perde il suo ruolo centrale nelle scelte. Al centro di un nuovo modello culturale rientrano invece le azioni e le scelte che sostengono la vita, la alimentano, la proteggono, e non la danneggiano o la degradano: e perciò in questo caso possiamo parlare di sostenibilità a pieno titolo. La decrescita felice, a mio modo di vedere, è la prima corrente di pensiero che riesce a fare questo passaggio basilare a livello culturale, senza tuttavia intaccare l’ambito spirituale. Solo con l’ecologia profonda si sconfina nella sfera dello spirito, si contempla l’importanza dello spirito che è alla base della vita e che perciò non può essere ignorato. Con la rivoluzione umana, infine, si introduce anche uno strumento diretto per indagare lo spirito umano e poter riformalo manifestando l’infinito potenziale inerente nella vita. 

Concludendo, quindi, credo che invece di vedere i vari modelli in competizione tra di loro forse dovremmo tentare di individuare una loro continuità evolutiva che non li metta in contrapposizione l’uno all’altro, sostenendo che uno deve necessariamente negare tutti gli aspetti degli altri, ma al contrario li faccia uno la naturale evoluzione dell’altro. Fino a giungere al cuore delle cose: lo spirito umano.

mercoledì 12 giugno 2013

La scuola all'incontrario



Quello di cui abbiamo urgentemente bisogno oggi non è tanto quello che ci vuol far credere il Sistema, ovvero di un ottimismo positivista e incosciente, piuttosto di cambiare completamente il nostro modo di pensare e vedere le cose. L’errore di fondo sta nel fatto che noi generalmente crediamo di aver bisogno di essere educati, di educare i nostri bambini, quando in realtà abbiamo bisogno di essere diseducati: di uscire quanto più velocemente dalla gabbia che il modello di pensiero unico ha costruito su misura per noi. 

I percorsi per la diseducazione personale possono essere molteplici e tutti validi. Uno di questi potrebbe essere l’istituzione di centri di disintossicazione, non dall’alcool, dal gioco o dalle droghe, che in fine dei conti sono solo alcuni degli effetti distruttivi della nostra attuale società, ma una disintossicazione dalla cultura dominante, dal mito del progresso, dall’inseguimento frenetico del successo e della crescita. Questi centri potrebbero accogliere le cosiddette “scuole all’incontrario”, ovvero delle scuole dove non sono gli adulti ad insegnare ai piccoli, riempiendoli di nozioni e omologandoli al sistema monoculturale, ma sono i piccoli che “insegnano” agli adulti. Sarebbero dei veri e propri centri di recupero per tutti noi che siamo contaminati ormai da decenni di indottrinamento propagandistico e inquadramento nella società, centri in cui bambini fino ai cinque - sei anni mostrerebbero agli adulti come godere delle cose semplici, come meravigliarsi ogni volta come fosse la prima volta, come giocare liberamente con la fantasia, come provare empatia per ogni forma vivente, come osservare con rinnovata curiosità e stupore tutte le persone che abbiamo accanto e provare spontanei sentimenti d’amore e compassione. 

Perciò gli adulti intossicati potrebbero frequentare queste “scuole all’incontrario” senza dover pagar nulla per qualche ora al giorno, magari dopo essere stati a lavoro non più di quattro ore. Potrebbero così ricordarsi facilmente che il senso della vita non è nel successo materiale, nel denaro, nei sentimenti bassi come l’invidia, la rabbia, il contrasto, la competizione, l’arroganza, l’egoismo, e riscoprire invece la gioia di vivere la scoperta delle cose semplici e la genuinità dei loro sentimenti, assistiti in continuazione da piccoli e integerrimi “insegnanti”.

mercoledì 5 giugno 2013

C'è spazio per i sogni di tutti?



Alla tipica domanda “Cosa vuoi fare da grande?” i ragazzetti di ogni generazione hanno sempre risposto tipicamente “l’astronauta, il calciatore, la ballerina, il dottore, il cantante rock” e quant’altro. Ma da grandi le risposte potrebbero essere più o meno le stesse alla domanda “cosa vorresti più di ogni altra cosa?”, gli adulti potrebbero dire “tanti soldi, il successo, la realizzazione personale, la fama, tante donne, tante esperienze profonde” e via discorrendo. 

Ognuno di noi nasconde dentro di sé dei piccoli e grandi sogni personali, ognuno se li porta avanti come meglio credo con la tenue speranza che forse un giorno arriverà, o comunque potrebbe arrivare. Altri lottano strenuamente per realizzare le proprie aspirazioni, ne fanno il loro motivo di vita, si dedicano con tutto se stesso, a volte anche con scopi filantropici, e solo alcuni ci riescono. 

Chi vorrebbe essere un cantante di fama, chi uno scrittore, chi un attore, chi un artista, chi vorrebbe essere una stella di Hollywood, chi un personaggio dello sport, della tv, della politica, chi vorrebbe raggiungere i gradini più alti della popolarità e del successo, chi vorrebbe fare delle scoperte eccezionale, inventare o progettare qualcosa che risolva tutti i problemi dell’umanità. 

A un certo punto mi sono chiesto, ma c’è davvero spazio per i sogni di tutti? Potremmo tutti realisticamente realizzare i nostri desideri? Costruire cioè un mondo pieno di cantanti di successo, astronauti, poeti, scrittori, calciatori, veline, tutte persone affermate e realizzate? Riuscite a immaginarvelo voi ? Io no, proprio non ci riesco, almeno in questo condizioni. 

Poi mi è venuta in mente la celebre canzone “Uno su mille ce la fa” ed ho pensato a quanto la nostra società e quindi il nostro entroterra culturale sia dominato dal mito della competizione come miglior mezzo per lo sviluppo e l’evoluzione umana. Ovvero il successo di uno è possibile solo a discapito di altri novecentonovantanove. Perciò ho capito che un tale sistema sociale e culturale è stato pensato proprio per non permettere a tutti di realizzare i propri sogni e quindi favorire la competizione in modo da sfruttarla a favore di pochi, e di dare ai più l’illusione della ricerca di qualcosa che non hanno come stimolo per continuare a sopportare un sistema degenere che in realtà non fa altro che schiavizzare le loro menti. 

Credo, quindi, che solo uscendo dall’attuale modello di pensiero, che vede la competizione come strumento indispensabile all’evoluzione, possiamo naturalmente e liberamente ricercare i nostri veri desideri e realizzarli a pieno senza nessuna forma di compromesso o di contrasto con i desideri altrui. Questo tipo di cambiamento condurrà l’umanità verso una nuova epoca evolutiva. Ne sono certo.

lunedì 3 giugno 2013

L'impossibilità: un'illusione da superare

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«La cultura occidentale è divenuta depressa, nel senso che sperimenta un senso di impossibilità di indirizzare le cose verso un miglioramento. Eppure l’ambiente economico e sociale è un prodotto umano e come tale può essere orientato verso il benessere. È la limitazione del senso della possibilità che produce questa mancata consapevolezza. È per questo che ci ritroviamo a vivere, ognuno da solo, l’ineluttabilità di cose che sentiamo più grandi di noi e che minacciano la qualità della nostra vita, il futuro dei nostri figli» 



Stefano Bartolini



L’impossibilità potrebbe apparire in contrasto con il concetto dell’illimitatezza presente nella cultura occidentale, con il “sogno americano” e con la mania di successo e progresso che pervadono oggi più di sempre. Eppure la società moderna ha negli anni messo a punto dei sistemi di autodifesa, dei veri e propri deterrenti culturali per poter sopravvivere al cambiamento radicale che segnerebbe la sua fine. Il più efficace e potente di questi strumenti di auto mantenimento è il senso dell’impossibilità. Oggi, l’epoca in cui tutto è possibile, in cui non esistono limiti fisici davanti all’ingegnosità umana, in cui possiamo colonizzare lo spazio cosmico e modificarlo a nostro piacere, in cui possiamo modificare geneticamente le cellule per renderle adatte ai nostri fini, il senso diffuso dell’impossibilità non è mai stato così forte. 

Nella nostra cultura è letteralmente impossibile immaginare una cultura diversa o comunque allo stesso livello di quella occidentale, essa è la miglior cultura e perciò non è possibile fare altrimenti. Creare un mondo diverso, su diverse basi culturali, o persino solo immaginarlo, è diventato impossibile, una cosa da frivoli sognatori, un tabu, un vizietto maniacale che solo certi intellettuali e nullafacenti possono permettersi di avere. 

L’impossibilità è stata sviluppata e rafforzata in anni di programmi televisivi e di educazione scolastica ben progettati a tale scopo, a reprimere la capacità umana di pensare fuori dagli schemi imposti dal tempo, dall’andare oltre il consolidato e di sognare, immaginare cose che non esistono e che non sono mai esistite col desiderio di renderle vive e concrete. Questa capacità progettuale e creativa umana è stata forzata a restare negli argini della crescita e del progresso, nei margini della cultura del profitto economico e del successo finanziario. Pensiamo ad esempio a tutte le volte che abbiamo tentato di fare discorsi che alludevano a qualcosa di vagamente differente dalle credenze culturali odierne ci siamo sentiti dire che erano solo utopie, cose impossibili da realizzare, solo chiacchiere. E come, allo stesso modo, davanti ad esperienze concrete ci siamo sentiti dire che erano solo eccezioni, solo oasi in un deserto, solo delle follie che sarebbero miseramente fallite, solo capricci di qualche illuso. 

Il senso di impotenza tende a livellare tutte le differenze, a uniformare il pensiero unico della fede cieca nel progresso eterno, a mantenere salda la direzione del nostro futuro. La cultura occidentale ci rassicura in continuazione che stiamo creando il migliore dei mondi possibile, che non può esistere migliore direzione che quella che abbiamo intrapreso, che continuando in questo modo miglioreremo sempre più le nostre vite e che non esiste altra via per raggiungere questo nobile scopo, che tutto deve cambiare in modo che nulla cambi. La società moderna recepisce il cambiamento come un processo indispensabile per il suo sviluppo e progresso, cambiare è il nuovo motto, e sempre più velocemente, senza neanche dare il tempo al cambiamento di avere effettivamente luogo in senso compiuto. Modernità è sinonimo di rapidità e mutamento senza fine. In sostanza però tale cambiamento inneggiato dalla cultura occidentale resta in ogni caso a livello superficiale della tecnica, quasi mai della cultura, ancor meno dello spirito. 

I tentativi repressivi, che tendono a limitare e indirizzare il potenziale umano a mero beneficio della cultura del tempo per il mantenimento di una società finalizzata al profitto, hanno avuto crescente successo negli ultimi decenni, con l’aumento del consumismo, con l’aumento dell’idolatria dei divi, con l’aumento dell’invidia, della competizione, degli eccessi e delle violenze mediatiche. Il tutto favorito da una disgregazione delle relazioni umane e da un malessere pisco-fisico crescente; anche se negli ultimi anni le cose stanno cambiando perché alcuni effetti devastanti cominciano a far emergere disagi e pericoli difficilmente ignorabili. 

La concezione culturale dell’impossibilità si ritrova tutte le volte che pensiamo che sia impossibile cambiare lo stato delle cose: è vero, esistono limiti nel mondo attuale, ma non è possibile non superarli, non è possibile fare altrimenti; è vero, le città sono inquinate ma non è possibile pensare una città senza automobili; è vero, la politica è corruzione e malavita ma non è possibile una politica diversa perché sono tutti uguali; è vero, il consumismo può essere degradante per l’uomo ma è impossibile immaginare un’economia senza; è vero che le guerre sarebbe meglio non farle ma quando sono necessarie è lecito farle. Queste sono solo alcune delle innumerevoli congetture che appartengono stabilmente alla cultura odierna e ostacolano grandemente il cambiamento a livello di come pensiamo e percepiamo la nostra esistenza, molto più di quanto potremmo mai immaginare. L’impossibilità significa non credere nella potenzialità creatrice della vita, significa, di fatto, limitare le proprie possibilità, la propria capacità di progettare alternative, di vedere oltre alla situazione presente, e la cultura occidentale, sia che ne siamo consapevoli o no, sta facendo un uso criminoso di questa concezione per sopravvivere oltre il suo tempo.