«Un uomo è ricco in proporzione del numero di cose delle quali può fare a meno»
Henry David Thoreau, Walden, ovvero vita nei boschi

mercoledì 11 dicembre 2019

Il fascismo di oggi è quello della "società dei consumi"




Ancora oggi, a quasi cento anni dal celebre ventennio, si fa spesso uso del termine “fascismo” ogni qual volta ci siano degli episodi macabri e deliranti, e lo si associa con il razzismo più bieco e ignorante. Nel fare questa operazione di condanna di tali atti, assolutamente condivisibile, spesso si tenta però di far rientrare sotto il cappello di “fascismo” ogni idea, ogni atteggiamento che vagamente cerca di opporsi a un modello di pensiero, ormai unico e inattaccabile. 

Che esistano dei fanatici, fascisti o di altro genere, e che essi possano rappresentare un rischio per la società è una questione di fondamentale importanza che dovrebbe essere dibattuta e gestita con pervicacia e lungimiranza. Ma il fascismo di cui ci allarmiamo tanto e di cui ci scandalizziamo non è, forse, la “forma di fascismo” ad oggi più preoccupante. 

Se si parla infatti di regime, di dittatura e di privazione delle libertà, la prima cosa che viene alla mente pensando ai nostri tempi non è il fascismo archeologico, né i suoi possibili rigurgiti, non un potere ben delineato, specifico, centralizzato, materializzato, piuttosto una forma di oppressione subdola, mistificante, celata nei meandri della società, nel modo di pensare comune, nella banalità del vivere moderno, nella mancanza di alternative culturali, un’oppressione controllata da un potere anonimo e indistinto. 

Questo è ciò che aveva capito con chiarezza, oltre quarantacinque anni fa, Pier Paolo Pasolini, le cui parole oggi suonano di un’attualità sconvolgente. Egli individua nella società dei consumi, già agli inizi degli anni settanta, il nuovo Potere dominante che uniforma la società, la rende schiava di nuovi dettami, non scritti, ma ugualmente, se non più, oppressivi di quelli del vecchio regime. Sì, perché il nuovo Potere è riuscito a fare in pochi anni quello che al fascismo archeologico non era riuscito in venti: entrare nella coscienza più intima delle persone, “colonizzando il loro immaginario”, per dirla alla Latouche. In questo, il nuovo dominio è ben oltre il regime tradizionale, per così dire esterno e determinato, circoscritto, è un regime occulto, indefinito, ma più profondo e incisivo, «peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante».

Nell’esporre questi concetti Pasolini non usa mezzi termini: «Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato “la società dei consumi”. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. Ed invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo».

Quello che Pasolini lancia, pochi mesi prima di essere assassinato, è un allarme concitato a una società che sta perdendo, o che forse ha già perso, la sua libertà, passando da una vita preindustriale, contadina, fatta di rinunce, sacrifici, dolore, ma anche essenziale, genuina, equilibrata, a una vita omologata, banale e mercificata. Una transizione, avvenuta in brevissimo tempo, che Pasolini, nel pieno della sua attività creativa, ha potuto acutamente osservare, vivendo in prima persona quello che lui ha chiamato il passaggio da “prima della scomparsa delle lucciole” a “dopo la scomparsa delle lucciole”.

«È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango. […] Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita».

In questa analisi, Pasolini vede molto lontano, lontano anni, decenni: vede una società che verrà sempre più fagocitata dal materialismo, dall’accumulo di beni inutili, che distruggeranno la convivialità delle relazioni parentali e di amicizia, disgregheranno le comunità, innalzando l’idolo dell’individualismo, il mito dell’uomo di successo, autorealizzato contro tutto e tutti, dell’edonismo più sfrenato; una società che si regge sempre più sulla vanità, sull’arroganza, sull’invidia, sulla competizione, fino ad arrivare ai nuovi mali moderni: il malessere psichico dilagante dell’uomo consumatore; un uomo non più umano, in quanto la società non è più fatta per la sua felicità, ma è uomo-strumento della società stessa, mentre la sua vita si svuota di ogni senso. 

Tutto questo è originato da una cultura dominante, una visione della vita che ha conquistato, oramai senza neanche più bisogno della forza, tutto il pianeta e su cui nessuno sembra capace di opporre la minima resistenza, e nemmeno la più pacata obiezione. Negli ultimi decenni questa uniformazione culturale è in evidente crescita: in ogni ambito, infatti, le differenze tra una parte del mondo e l’altra vanno riducendosi. Se osserviamo il modo di concepire la propria vita, i principi su cui basare le scelte più importanti, si può concludere con certezza che l’omologazione a livello planetario è interamente compiuta. Il criterio economico che si fonda sull’utile è diventato l’unico valore determinante di ogni aspetto delle nostre esistenze. 

Questo Pasolini lo aveva capito con largo anticipo.

«Il modello culturale offerto agli italiani, e a tutti gli uomini del globo del resto, è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività».

Il nuovo Potere è altamente uniformante, livella tutta la società su una monocultura, un monopensiero, uccidendo quindi la cultura e il pensiero, rendendo sterile ogni tentativo di indipendenza intellettuale, così come ogni forma espressiva. 

Negli ultimi anni della sua vita, Pasolini concentra la sua riflessione sulle vere ragione dell’antagonismo tra il cosiddetto fascismo e il cosiddetto antifascismo per scoprire, con rammarico, che entrambi non sono che due aspetti complementari, interscambiabili, solo apparentemente in contrasto, ma di fatto sostenitori e funzionali al sistema del nuovo Potere. Perché non lo affrontano, non lo mettono in discussione, e probabilmente neanche riescono a percepirne l’esistenza. L’esistenza di una nuova e subdola forma di totalitarismo. 

«La matrice degli italiani che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili».

Confrontando il fascismo archeologico con il “nuovo fascismo” arriva addirittura a considerare quest’ultimo ben peggio del primo, in quanto il nuovo Potere ha una capacità pervasiva di gran lunga maggiore, capace di influenzare le menti continuando a farle sentire illusoriamente libere. 

«Il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo, che è tutt’altra cosa, non distingue più, non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo». 

E ancora: «Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irregimentazione superficiale, scenografica, ma di una irregimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo».

Il nuovo Potere è potente del suo essere invisibile, inconsistente, apparentemente inesistente, intangibile, indecifrabile, sebbene i suoi effetti devastanti sulla società e sull’ambiente naturale siano dannatamente evidenti. Tale potere ha una conformazione assolutamente altra rispetto ai poteri dei secoli precedenti: non ha niente a che vedere con il potere religioso, né con il potere politico, né probabilmente con quello prettamente economico e industriale, non è nazionale, supera i confini degli stati e persino dei patti internazionali, è forse oltre ciò di cui siamo a conoscenza. 

«Scrivo “Potere” con la P maiuscola solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più nel Vaticano, né nei potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transazionale)».

Questa «forma “totale” di fascismo» ha però una caratteristica che lo distingue e ne permette l’individuazione: essa ha una febbrile «smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare», una frenesia schizofrenica e inarrestabile di perpetuare il progresso tecnologico e l’accumulo di beni materiali a oltranza e ad ogni costo. 

Nessuna opposizione è contemplata. L’antifascismo di oggi, come quello di allora, al tempo di Pasolini, invece di contrastare criticando la società dei consumi, si scaglia unicamente su di un fascismo primitivo, che non ha più un potere realmente totalitario. 

«Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più». 

«Buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è presuntuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È, insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo».

“L’antifascismo di maniera” non fa che alimentare l’odio e favorire la divisione della società. In quanto “anti”, “contro” qualcosa, per sua stessa natura è funzionale a quel qualcosa, altrimenti non esisterebbe. 

«Questo odio si dirige, in certi casi in buonafede e in altri in perfetta malafede, sul bersaglio sbagliato, sui fascisti archeologici invece che sul potere reale».

La dittatura non ha più le forme del secolo scorso, non ne ha più bisogno, si è mascherata da sviluppo, libertà, comodità, benessere, agiatezza, opportunità. E i suoi strumenti non sono più propagande scenografiche e repressioni violente, la sua propaganda è perenne e pervadente, non si distingue più nella nostra vita dai suoi normali accadimenti, è la nostra vita stessa un grande manifesto di propaganda del nuovo regime, ognuno di noi un perfetto adepto inconsapevole. E la violenza si è mascherata da solidarietà, l’arroganza da sicurezza, l’intolleranza da tolleranza.

«La vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività concessa dall’alto, voluta dall’alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, la più fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime».

Il risorgere di movimenti che riecheggiano al fascismo, nonostante il secolo trascorso, è di fatto l’evidente conseguenza di una situazione sociale che sta degenerando proprio a causa di una stretta del nuovo regime sulle masse popolari costrette a subire da vicino, non solo le pene delle diseguaglianze economiche, ma anche tutti gli altri effetti indesiderati della modernità: disastri ecologici, malesseri psichici, disagi relazionali, malattie a causa ambientale.

Se l’antifascismo è la risposta per uscire dal fascismo, con molta probabilità, è la risposta sbagliata, o se non altro incompleta. 

«Ridurre l’antifascismo a una lotta contro questa gente significa fare della mistificazione. Per me la questione è molto complessa, ma anche molto chiara, il vero fascismo, l’ho detto e lo ripeto, è quello della società dei consumi».

Un po’ come l’ecologia di superficie, che non mette in discussione il modello di sviluppo e di pensiero occidentale, è totalmente inefficace a promuovere una vera ecologia, che sia invece profonda e radicale, allo stesso modo un antifascismo “di maniera”, anch’esso superficiale nel senso che non va ad intaccare le radici della crisi sociale odierna, non potrà contribuire a un cambiamento reale della società attuale e incidere sulle cause dei suoi malesseri.

Per uscire da questa situazione degenerante, quello di cui c’è bisogno non è creare divisione tra le persone, tra destra e sinistra, tra progressisti e conservatori, sia perché tali distinzioni non hanno di fatto più nessun senso poiché le due fazioni nel profondo sono l’espressione della medesima cultura, sia perché l’azione realmente efficace è piuttosto l’opposta, quella di unire le persone, non “contro” qualcosa ma “per” qualcosa, per incoraggiarle a intraprendere un altro percorso, un percorso che sia veramente nuovo, non “anti” o “contro”, ma completamente “oltre”. 

Mentre Pasolini, al suo tempo, ha visto «il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione», noi ci dobbiamo augurare, al nostro tempo, di vedere una trasformazione totale e profonda delle nostre coscienze, che non ci conduca a un ritorno al passato, ma che ci riveli nuove ed entusiasmanti alternative.



Il virgolettato «…» è estratto da Pier Paolo Pasolini - Il fascismo degli antifascisti - Garzanti



lunedì 1 luglio 2019

Adottare una nuova cultura per la felicità del pianeta



“Affrettatevi a cambiare i principi su cui si basa il vostro cuore”[1]
Nichiren Daishonin



Un giorno un giovane uomo fece visita a un suo amico. Erano trascorsi diversi anni dall’ultima volta che si erano incontrati. 
«Ho letto il tuo ultimo articolo recentemente» esordì l’ospite dopo i normali convenevoli «e non mi trova per niente in accordo». 
«La cosa non mi sorprende» rispose il padrone di casa «ma se vuoi parlarmene, proverò a spiegarmi meglio». 

«Tu ti riferisci all’ottimismo come fosse un male, un male della nostra epoca. Eppure io non vedo ammalati di ottimismo. Piuttosto vedo ogni giorno schiere di pessimisti che non fanno che lamentarsi con gli altri e degli altri, peggiorando ancor più le loro misere vite. L’ottimismo è ciò che smuove le coscienze, ciò che fa progredire il mondo. L’ottimismo ha reso possibile grandi scoperte e grandi visioni: è stato l’ottimista, non il pessimista, a sconfiggere le malattie, a realizzare l’impensabile, a far volare l’uomo fino alla Luna, a renderlo ridente fautore del suo destino e non dolorosamente succube». 

Il padrone di casa disse: «Dal tuo punto di vista, che poi altro non è che quello di oramai miliardi di persone nel mondo globalizzato, hai perfettamente ragione. Se non che il mio punto di vista sia sostanzialmente più ampio, e direi anche più profondo. Ti dimostrerò, se avrò il tempo di illustrarti le mie ragioni, che in realtà io sono il più fervido ottimista sulla faccia della Terra. Tuttavia, l’ottimismo a cui mi riferisco è ben diverso da quello in cui tu hai fede. Potremmo chiamare il primo ottimismo consapevole, o profondo, l’altro ottimismo incosciente, o superficiale. 

Nel mio articolo criticavo quest’ultimo tipo di ottimismo, che oggi viene portato in gran considerazione, inneggiando alla vittoria, come se ci fosse qualcosa da sconfiggere, alla battaglia, come se ci fosse qualcosa da combattere, al cambiamento, al dinamismo e alla crescita, come se cambiare, muoversi e crescere fossero in ogni caso segni positivi, e al progresso, come se non esistessero limiti a ciò che si può raggiungere. 

Questo ottimismo cieco, che non ha nessun fondamento profondo, se non i mondi bassi di avidità, stupidità e collera, non permetterà la risoluzione della triplice crisi[2] in cui sta sprofondando il nostro pianeta sempre più rapidamente. Non soltanto, l’effetto di questo ottimismo progressista accelererà ancor di più gli effetti e le cause delle crisi, riducendo di fatto il tempo che ci resta per agire, prima che sia troppo tardi[3]. Da qui la mia aspra critica all’ottimismo cieco, che non ha alcuna base scientifica, pur rifacendosi alla scienza come dea salvifica di ogni male, né alcuna solida base filosofica. Deriva perciò che a un ottimismo inconsapevole sia preferibile un pessimismo lucido, che tenga in considerazione le terribili circostanze che stiamo vivendo. Per essere pessimisti lucidi dobbiamo prima di tutto essere ben informati e avere gli strumenti culturali per rielaborare la grande massa di informazioni che riceviamo. Dobbiamo inoltre mantenere equilibrio e non cedere alla lamentela logorante o alla critica distruttiva. Dobbiamo riconoscere la complessa e fitta rette di cause ed effetti e non cadere nel panico. Un pessimismo lucido permetterà così la presa di coscienza e la chiamata all’azione, al contrario un ottimismo incosciente si adagerà sulla fede nella scienza e nel progresso e non provocherà alcun reale cambiamento. Resta il fatto, però, che un pessimismo lucido non sarà comunque sufficiente».

lunedì 18 marzo 2019

Georgescu-Roegen per la decrescita






Tra i precursori della decrescita di Serge Latouche non poteva mancare Georgescu-Roegen, il padre della bioeconomia, un matematico rumeno che ha finito per occuparsi di economia e delle sue implicazioni sociali e ambientali. Sebbene i suoi ultimi scritti siano risalenti alla fine degli anni ottanta, le sue riflessioni sono, purtroppo direi, ancora all’avanguardia. 

Sono numerosi gli spunti forniti dai lavori di Georgescu-Roegen, molti dei quali oggi si ritrovano tra i capisaldi del movimento per la decrescita. Nel suo programma bioeconomico minimale ha condensato gran parte di questi punti: uno tra tutti è quello che si riferisce al valore della sobrietà, unito alla consapevolezza dei limiti delle risorse e degli effetti negativi, sia a livello individuale che collettivo, del superamento di detti limiti. 

«Dobbiamo curarci dalla passione morbosa per i congegni stravaganti», «dobbiamo liberarci anche della moda, quella “malattia della mente umana”. […] È veramente una malattia della mente gettar via una giacca o un mobile quando possono ancora servire al loro scopo specifico. Acquistare una macchina nuova ogni anno e arredare la casa ogni due è un crimine bioeconomico». 

Altri punti sono la durabilità e la riparabilità degli oggetti prodotti, quindi l’abolizione di quella che ormai oggi è tristemente conosciuta come obsolescenza programmata. 

«I beni devono essere resi più durevoli tramite una progettazione che consenta poi di ripararli». 

La messa al bando degli armamenti che, oltre a essere un pericolo costante per il mantenimento della pace, rappresenta un ingente spreco di risorse, che invece potrebbero essere impiegate per «aiutare le nazioni in via di sviluppo ad arrivare il più velocemente possibile a un tenore di vita buono (non lussuoso)». 

La riduzione dei consumi deve essere però accompagnata dalla riduzione della popolazione mondiale, «portandola a un livello in cui l’alimentazione possa essere adeguatamente fornita dalla sola agricoltura biologica», e nel contempo dall’incremento invece dell’efficienza di conversione energetica. Georgescu-Roegen individua, tra le fonti energetiche primarie, il sole come l’unica a poter realmente apportare un cambiamento migliorativo nell’approvvigionamento energetico e in tutte le questioni a esso connesse, non solamente di natura economica ed ecologica. «Solo una forma di energia accessibile arriva a noi in modo continuo e quasi a costo zero: l’energia solare» afferma Georgescu-Roegen evidenziando subito però il suo principale svantaggio, ovvero quello «di giungere a noi in una forma altamente diluita, come una pioggia estremamente fine», cioè con una bassa densità energetica. Tuttavia resta il fatto che «l’energia terrestre è molto scarsa rispetto all’energia solare, la quale è inoltre un bene libero». 

Nel condensato del programma non manca di evidenziare il grande paradosso dell’attuale sistema economico, quello di correre sempre più forte, producendo e consumando sempre di più, senza alcun apparente scopo se non quello di aumentare ulteriormente i nostri ritmi, non prendendo in considerazione alcun limite. 

«Dovremmo curarci per liberarci di quella che chiamo “la circumdrome del rasoio”, che consiste nel radersi più in fretta per aver più tempo per lavorare a una macchina che rada più in fretta per poi aver più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più in fretta, e così via, ad infinitum». 

Un po’ come fa il criceto nella ruota, l’uomo moderno corre sempre più velocemente per nutrire l’illusione di essere in moto verso una meta, quando invece non solo il suo movimento è fine a se stesso, non apportando di fatto benefici ulteriori, ma lo sta avvicinando sempre più rapidamente al baratro. 

Arriva perciò a uno dei punti cruciali dei sostenitori della decrescita, ovvero alla necessità di ritrovare il tempo di vita sottraendolo dal circolo vizioso e cieco del lavorare per consumare e del consumare per lavorare. 

«Dobbiamo renderci conto che un prerequisito importante per una buona vita è una quantità considerevole di tempo libero trascorso in modo intelligente». 

Al di là di questi punti programmatici, la riflessione di Georgescu-Roegen parte sostanzialmente da una critica dell’economia tradizionale, fondata sul meccanicismo, di derivazione galileiana-newtoniana, che ignora del tutto l’altra branca della fisica, più complessa e forse meno rincuorante, la termodinamica, per non parlare delle più avanzate scoperte della fisica del novecento. 

Perché, si chiede, se la fisica è passata dal modello deterministico riduzionista del XVIII secolo a quello indeterministico e relativistico del XX secolo, l’economia non ha fatto altrettanto andando a revisionare i suoi presupposti epistemologici? 

Georgescu-Roegen prova a rispondersi così: «Certamente c’è il fatto, su cui insisteva Lord Kelvin, che la mente umana capisce meglio un fenomeno se esso è descritto per mezzo di un modello meccanico. Dopotutto, la natura umana è tale che noi possiamo agire soltanto spingendo o tirando sul mondo materiale esterno. Ma questa nostra manchevolezza non è un buon motivo perché la scienza ne resti sempre vincolata». 

L’economia non può prescindere dai limiti biologici della terra, non può considerare i flussi di materiali e di energia come continui e inesauribili, non può pretendere di prevedere l’andamento dei mercati secondo rigide leggi matematiche. Georgescu-Roegen, per primo, introduce e accosta i concetti di entropia e quindi d’irreversibilità, provenienti dal secondo principio della termodinamica, al funzionamento del sistema economico e arriva perciò a queste conclusioni: 

«Il processo economico, come qualunque altro processo vitale, è irreversibile (e in modo irrevocabile); di conseguenza, non può essere spiegato in termini esclusivamente meccanici. È la termodinamica, tramite la legge dell’entropia, che riconosce la distinzione qualitativa, che gli economisti avrebbero dovuto fare fin dagli inizi, fra input di risorse dotate di valore (bassa entropia) e output di scarti privi di valore (alta entropia)». 

Georgescu-Roegen comprende di essere di fronte a un cambiamento epocale che però tarda a manifestarsi, e non manca di far notare l’ottusità con cui ancora oggi (allora ai suoi tempi e purtroppo ancora oggi ai nostri) la cultura dominante, che si tratti di intellettuali, di decisori politici o del senso comune diffuso tra la popolazione, insiste nel voler glorificare e supportare un modello che non solo non è sostenibile, ma anche profondamente iniquo e degradante. 

«Non è giusto accusare con troppa severità gli economisti di questi ultimi cento anni, perché in questo periodo è sembrato che la natura ci potesse fornire gratis tutte le risorse naturali di cui abbiamo bisogno. Gli eventi recenti, invece, hanno dimostrato che non è così. E questa volta non è soltanto giusto, ma è addirittura un imperativo per il benessere della specie umana – di questa generazione come di quelle future – protestare contro quegli economisti che oggi, in difesa della loro trascorsa miopia, continuano a dire che la dipendenza dell’uomo dalle risorse terrestri non costituisce un ostacolo ecologico». 

Quello che lo sbalordisce, e ci sbalordisce tutt’oggi, è come il modello tradizionale, adesso sfociato nel neoliberismo e in un turbocapitalismo all’ennesima potenza, porti avanti con ottimismo e sfrontatezza le sue tesi nonostante la scienza stessa, di cui il sistema si fa portatore e a cui dice di attenersi ciecamente, ci stia avvisando già da tempo che stiamo percorrendo una strada sbagliata. 

«La stessa teoria dello sviluppo economico è saldamente basata su modelli di crescita esponenziale. Ma quando gli autori di The Limits to Growth hanno anch’essi usato l’ipotesi di crescita esponenziale, gli economisti si sono messi a gridare in coro: “Errore!”». 

Negli ultimi suoi scritti Georgescu-Roegen allarga la sua critica anche agli emergenti scenari: che si tratti della cosiddetta teoria dell’economia stazionaria, o dell’economia circolare, di cui ancora oggi si parla riponendovi grandi speranze, o addirittura del decantato, e oramai decotto, sviluppo sostenibile. 

«Dall’idea che la crescita economica non può essere infinita, idea che era nell’aria già molto tempo prima che ne parlassi io, Daly arrivò alla conclusione che “lo stato stazionario dell’economia è quindi una necessità”, un banale errore di logica elementare, poiché l’opposto della crescita non è solo lo stato stazionario», bensì la decrescita, come aveva già avuto modo di suggerire in altre sue opere. 

Nell’acuto approfondimento di tali temi, Georgescu-Roegen aveva compreso che tali teorie altro non erano che espedienti ingegnosi per sostituire il cappello all’economia senza tuttavia cambiare i principi con cui la sua testa ragiona, modificare con degli ottimi slogan, che trasmettessero un messaggio positivo di cambiamento, solamente la superficie delle cose, per continuare a percorre in ogni caso la via della crescita infinita. 

«Essendo tale approccio molto ottimistico, si diffuse come credo dominante molto velocemente. Naturalmente i paesi avanzati lo accolsero favorevolmente poiché tutti sarebbero stati felici di poter continuare a vivere nelle stesse abitazioni, guidare le stesse automobili e mangiare lo stesso cibo appetitoso. Purtroppo essi non capirono che erano vittime di una grande illusione». 

E da qui una grande domanda che ancora oggi, all’indomani di una grave crisi economica e alla luce di disastri sociali e ambientali sempre più allarmanti e diffusi, resta senza risposta: cosa impedisce al genere umano un cambiamento radicale che lo possa salvare dalla catastrofe? si tratta semplicemente di essere illusi o addirittura ignoranti? O forse, usando le parole di Georgescu-Roegen, «il destino dell’uomo è quello di avere una vita breve, ma ardente, eccitante e stravagante piuttosto che un’esistenza lunga, monotona e vegetativa. Siano le altre specie, le amebe per esempio, che non hanno ambizioni spirituali, a ereditare una terra ancora immersa in un oceano di luce solare». 

Una cosa è certa: qualsiasi sia la risposta, faremmo bene a trovarne una, prima che sia troppo tardi. 



Il corsivo è tratto da M. Bonaiuti, Georgescu-Roegen. La sfida dell’entropia, Jaca Book






sabato 16 marzo 2019

La soluzione alla crisi climatica, e non solo, è la decrescita



Forse non è del tutto chiaro che, se vogliamo quantomeno limitare l'aumento inesorabile delle temperature globali e tutti gli effetti negativi che ne conseguiranno, dobbiamo abbandonare prima possibile un modello economico-sociale basato sulla crescita. 

E forse è ancor meno chiaro che non si tratta soltanto della crescita del fatidico PIL, la chimera assoluta dell'economia di saccheggio, o della crescita di quei prodotti la cui eliminazione avrebbe evidenti benefici diffusi, penso agli armamenti, alle droghe, all'usa e getta, alle sostanze tossiche, alle scorie nucleari, agli sprechi materiali ed energetici in genere. 

Nemmeno la crescita dei pannelli fotovoltaici e delle auto elettriche, sebbene auspicabile in parte, sarà sufficiente a invertire la rotta intrapresa. Non basterà usare di più la bicicletta, abbassare di qualche grado il termostato o rinunciare alla carne per qualche giorno. 

Quello che occorre fare, per tentare di limitare le conseguenze dannose del nostro incosciente sviluppo, è fermarsi a riflettere, compiere un'autocritica profonda e cominciare a ricostruire una società fondata su un nuovo modo di pensare e vedere il mondo: non più centrata sull'ego individuale, ma su una forte consapevolezza di interconnessione e interdipendenza; non più sostenuta dalla competizione bensì dalla collaborazione; non più regolata dalle algide leggi di mercato ma da condivisi principi etici; non più alimentata dall'effimera gioia derivante dal consumismo ma dalla riscoperta che armonia e felicità sorgono dalle relazioni, con sé, con gli altri e con l'ambiente tutto; non più una società esclusivamente maschilista, dove dominano il calcolo e l'aggressività, ma in un nuovo equilibrio con i tratti femminili della cura e della sensibilità. 

E tutto questo, in fin dei conti, non lo dobbiamo fare solo per risolvere la crisi climatica, poiché la crisi nella quale oggi siamo immersi è una crisi globale che riguarda non solo il clima e l'ambiente, ma l'economia e la società nel loro insieme (divario tra ricchi e poveri crescente, instabilità, disoccupazione, migrazioni) e in ultima analisi dell'uomo stesso (i suicidi e il malessere psichico sono in crescita proprio nei paesi ricchi). 

Perciò oggi, all'indomani della più grande manifestazione sul clima a livello mondiale che ha visto una massiccia partecipazione di giovani, occorre precisare che il cambiamento di cui abbiamo davvero bisogno dovrà essere drastico e dovrà rispondere alla crisi globale e non soltanto ad alcuni suoi aspetti. 

E tale cambiamento non potrà essere lasciato nelle mani dei decisori politici né dei tecnici esperti, ogni persona, attraverso una propria riflessione profonda, dovrà fare la sua parte per il benessere di tutti, nessuno escluso.



lunedì 25 febbraio 2019

Educare all'utopia, un commento al libro di Federico Tabellini




«Una terza via esiste, e la stiamo vivendo. È un’utopia scandalosa con meno lavoro, meno consumi e più benessere»


La crisi globale nella quale siamo immersi è difficile da analizzare e comprendere, non tanto per la sua complessità e la sua interdipendenza con tutti gli aspetti delle nostre vite, ma quanto per il semplice fatto che essendoci immersi, vivendola dall’interno, non siamo capaci di avere la giusta prospettiva che ci permetta di osservarla nella sua interezza e quindi anche nella sua innegabile complessità. Avremmo bisogno perciò di uno sguardo che superi la contingenza, che sia libero di vedere e di andare oltre ciò che abbiamo davanti. 

Federico Tabellini, nel suo saggio “Il secolo decisivo”, ci fornisce una tale visione, in grado di aprire una panoramica chiara e obiettiva sullo stato attuale della società tardo-capitalistica in piena crisi e di prospettare possibili soluzioni. L’espediente che usa è semplice quanto geniale. Tabellini immagina di aver vissuto l’intero ventunesimo secolo e di aver avuto esperienza diretta di tutti i cambiamenti, economici, sociali e culturali, che hanno permesso un’epocale transizione da una società fondata sulla crescita e lo sfruttamento illimitato delle risorse del pianeta a una società basata invece sull’equilibrio e su un benessere diffuso, totalmente differente da quello che conosciamo oggi. 


«Un benessere nuovo, o forse solo dimenticato, liberato dalle mura luccicanti dei centri commerciali, dal grigiore multicolore e ipnotico del consumismo a occhi bassi. Un benessere demercificato e sostanziale, che non nasce e non muore nella differenza, nella comparazione con un altro più povero o più ricco, ma che è al contrario accresciuto nella condivisione»


Le colonne portanti sulle quali si basa la transizione descritta da Tabellini sono tre: il reddito universale, l’educazione libera e autonoma e la politica degli argomenti. 

La transizione dal lavoro come schiavitù, culturale ancora prima che fisica, al lavoro come vocazione e come servizio creativo e migliorativo del benessere collettivo, vede il suo perno centrale nell’istituzione del reddito universale, un reddito di base a cui ogni persona ha diritto, indipendentemente dalla sua provenienza, dalla sua situazione lavorativa, dal suo status sociale. Una semplice riforma che opera a livello culturale ed economico, eliminando ogni altra forma di sussidio o assistenzialismo, liberando i disoccupati e i precari dal ricatto del posto di lavoro da trovare o mantenere a tutti i costi per non rischiare la miseria e l’emarginazione, ma soprattutto dileguando l’etica lavorista che idolatra ogni forma di lavoro, senza considerare se questo è dannoso per la società o quantomeno utile. 

Il cambiamento culturale essenziale per la transizione dal cittadino produttore-consumatore, che associa alla quantità di consumo, non solo dei beni ma anche delle relazioni, un rapporto sempre positivo con il benessere individuale, alla persona creativa e consapevole è stato possibile, secondo le anticipazioni di Tabellini, con una riforma radicale del sistema educativo, non più centrato sul fornire ai giovani gli strumenti per collocarsi nel mercato del lavoro, in una sempre più feroce competizione con i coetanei, piuttosto con la libera espressione e lo sviluppo armonico delle loro passioni e dei loro interessi. 

La terza colonna che regge il cambiamento è quella della transizione da una politica di slogan da palcoscenico, diretta dal mercato del consenso, a quella di dibattito nel merito delle diverse problematiche su cui il cittadino, liberato dalla schiavitù del produrre e del consumare, può informarsi e crearsi una propria opinione. Una politica, chiamata faceless democracy, nella quale non si abbia più alcun interesse ad accaparrare voti e popolarità, quanto a risolvere le questioni più rilevanti per il benessere di tutti. 

“Il secolo decisivo” racconta tutto questo come se fosse già accaduto, e mentre lo leggiamo forse ci persuadiamo un po’ anche noi, o forse ci illudiamo, che qualcosa di simile possa realmente accadere. Ed è questa, credo, la grande forza del saggio di Tabellini: quella di educarci, senza rendercene conto, a una vera e propria utopia, che in tanti e in troppi ci dicono essere irrealizzabile, ma che noi in fondo, non solo speriamo possa realmente avverarsi, ma cominciamo già adesso, dentro noi stessi, a renderla possibile.