«Il progresso è
complessivamente, per tutta l'umanità, un fatto non dimostrato e per tutti i
popoli orientali inesistente; il dire perciò che il progresso è una legge
dell'umanità è privo di fondamento quanto dire che tutti sono biondi ad
eccezione di quelli con i capelli neri»
Lev Tolstoj
Tra i
più eccelsi precursori della decrescita come non ricordare il grande romanziere
russo Lev Tolstoj. Molto conosciuti i suoi romanzi, molto meno i suoi saggi,
anche se, nella sua produzione letteraria, per quantità sono prevalenti. La
critica di Tolstoj alla modernità, che in quegli anni sopravviene come un
miraggio inevitabile, è netta e lungimirante. Tolstoj già vede nell'avanzare
incontrastato del progresso tecnologico una minaccia nascosta, che pochissimi, soprattutto
in quell'epoca, hanno saputo cogliere con la sua perspicacia. Non a caso un
altro dei grandi precursori della decrescita, Gandhi, era stato suo estimatore.
Nelle
sue riflessioni Tolstoj evince che il progresso non è altro che un mito
destinato a crollare illusoriamente, ma non senza aver fatto le sue vittime. Il
progresso è secondo Tolstoj un ingegnoso espediente utilizzato a vantaggio di
una piccola cerchia di potenti: proprio come la religione era stata usata per
tenere la popolazione sotto il loro giogo, adesso il progresso viene ad essere
uno strumento di sottomissione innovativo.
«Nella questione del progresso
la mia posizione si conferma e ne derivo che il progresso più è vantaggioso per
la "buona società", meno lo è per il popolo. A conferma del mio
pensiero, involontariamente mi si presenta alla mente il parallelo tra credenti
nel progresso e credenti cattolici. Il clero credeva sinceramente e con
particolare sincerità, perché questa fede gli era di vantaggio; per lo stesso
motivo la inculcava con tutti i mezzi nel popolo che ci credeva di meno perché
gli era meno vantaggiosa. Lo stesso accade con i credenti nel progresso.
I credenti nel progresso credono
sinceramente perché tal fede gli è conveniente e per questo la diffondono in
maniera esasperata e con accanimento. Mi viene istintivamente in mente la
guerra in Cina, con la quale tre grandi potenze del tutto sinceramente e
ingenuamente hanno portato in quel paese la fede nel progresso, servendosi di
polvere da sparo e pallottole. Forse mi sbaglio?»
Tolstoj
riconosce che soltanto la cultura occidentale ha adottato la fede nel progresso
come sua nuova religione, nessun altra cultura l'ha mai fatto, e probabilmente
l'avrebbe mai fatto se non fosse stata obbligata con le armi e i cannoni.
«Il progresso è probabilmente
una legge svelata solo ai popoli europei, ma così importante da dover
assoggettare ad essa tutta l'umanità».
È
proprio in quegli anni, negli anni sessanta dell'Ottocento, che Cina e Giappone
vengono costretti con la forza delle armi occidentali ad aprire i loro confini
al commercio internazionale, al mito del progresso e della crescita eterna. Dopo
che gli altri continenti, tutto il continente americano e quello australiano,
erano già stati colonizzati e occidentalizzati, sterminando letteralmente le
popolazioni indigene. Su questa prepotenza e ingiustizia Tolstoj ritorna più
volte nei suoi scritti: «Sappiamo anche
che la Cina, con i suoi duecento milioni di abitanti, smentisce tutta la nostra
teoria del progresso e noi, neanche per un attimo, dubitiamo che il progresso
sia legge comune a tutta l'umanità e che noi, fedeli del progresso, siamo nel
giusto e che i non credenti in esso siano colpevoli, e per questo andiamo dai
cinesi con cannoni e fucili ad inculcargli l'idea di progresso».
Certo a
pensare alla Cina di oggi non si direbbe che possa smentire la "fede nel
progresso", tutt'altro: la Cina oggi rappresenta il nuovo e più avanzato
altare al progresso e alla crescita eterna. Questo ovviamente è potuto avvenire
soltanto dopo un minuzioso lavoro di estirpamento culturale effettuato da Mao e
dalla sua rivoluzione, per accelerare i tempi di occidentalizzazione di una
delle culture più antiche e perciò più distanti, o meglio più
"arretrate", rispetto alla civiltà moderna occidentale.
La
critica di Tolstoj infatti, da buon precursore della decrescita e pensatore ben
oltre il suo tempo, non risparmia neanche il socialismo emergente in Europa. Tolstoj
intuisce già allora, agli albori dell’industrializzazione del pianeta e delle
lotte di classe, che il socialismo altro non è che una visione alternativa
della stessa cultura del progresso e della crescita eterna, semplicemente un
modo per vedere la questione da un diverso punto di vista, ma che è incapace,
proprio per come si pone rispetto al tema cruciale del progresso tecnico ed
economico, di risolvere alla radice le falle che il sistema stava già creando e
che non potrà mai rappresentare una reale alternativa.
Oggi
dopo tutto il Novecento, dopo due guerre mondiali, una guerra fredda, la caduta
del sistema sovietico, la globalizzazione imperante, e la trasformazione
capitalistica della rossa Cina, possiamo affermare con discreta certezza che
Tolstoj ci aveva visto lontano, lontano più di un secolo.
I
riferimenti di Tolstoj sono relativi principalmente alle questioni sociali,
meno a quelle ecologiche per ovvie ragioni storiche, tuttavia i suoi valori
della nonviolenza, che lo condurranno al vegetarianismo, e della sobrietà nello
stile di vita che adotterà fanno dello scrittore un emblema della nuova
ecologia, un'ecologia profonda.
«Voglio solamente dimostrare
che, per arrivare a condurre una vita morale, è indispensabile acquistare
progressivamente le qualità necessarie, e che tra tutte le virtù, quella che
bisogna possedere prima delle altre è la sobrietà, la volontà di dominare le
proprie passioni».
Sul
tema della tecnologia e dei suoi effetti sulla vita umana, tema mai come oggi
attuale e rilevante, Tolstoj si esprime ancora in modo lucido e preciso: «Solo se si comprenderà che non dobbiamo
sacrificare la vita dei nostri fratelli per il nostro tornaconto sarà possibile
applicare i miglioramenti tecnici senza distruggere vite umane» e
l’ecosistema terrestre, aggiungerei. La tecnologia perciò è vista in una
cornice etica prima ancora che strettamente tecnica e utilitaristica: perché se
essa è al servizio di un sistema che ha al centro l’interesse individuale, di
per sé limitato, apporterà gravi danni che supereranno di gran lunga i suoi sempre
più sterili benefici.
Per
quanto riguarda invece il lavoro nell’era dell’industrializzazione,
interessante è la sua critica alla suddivisione del lavoro, che oggi è sfociata
in una iper-specializzazione, che tende, oltre che a incasellare le persone in
ruoli sociali ben definiti, ad alienare l’essere umano dalla stessa gioia di
vivere la vita nelle sue differenti declinazioni: le attività manuali, le
attività intellettuali, le attività spirituali, da ognuna delle quali l’uomo
trae beneficio e gioia, dal loro mutuo equilibrio più che dalla qualità di
prestazione settoriale che è capace di sviluppare nell’arco della sua vita.
«Mi è sembrato che meglio di
tutto sarebbe alternare le occupazioni della giornata in modo da esercitare
tutte e quattro le capacità dell'uomo e da prodursi da soli tutti e quattro i
tipi di beni che utilizziamo, cosicché una parte del giorno - la prima - sia
dedicata al lavoro pesante, la seconda a quello intellettuale, la terza a
quello artigianale e la quarta ai rapporti con gli altri.
Mi è sembrato che solo allora
sarebbe distrutta quella falsa divisione del lavoro che esiste nella nostra
società e verrebbe instaurata quella giusta divisione del lavoro che non
distrugge la felicità dell'uomo».
Perciò
la libertà di vivere si slega dalla univoca dipendenza salariale, di un lavoro
imposto dalla società e dall’economia, e la persona riconquista la sua dignità
e la sua capacità di esprimersi attraverso una vita ripensata su ritmi
allentati e attività diversificate e comunque fruttuose, avendo la possibilità
di dedicarsi maggiormente alle attività che più lo appassionano: «Un uomo che abbia riconosciuta la propria
vocazione al lavoro tenderà naturalmente a questa varietà di lavoro che gli è
propria per soddisfare le sue necessità esteriori e interiori, e modificherà
questo stato di cose solo se sentirà in sé la vocazione irresistibile per un
certo lavoro esclusivo, di cui gli faranno richiesta».
Dalle
parole di Tolstoj si evidenzia perciò, già nella seconda metà dell’Ottocento,
la formazione di una linea culturale che si appresta a dominare il pianeta, la
fede cieca nel progresso, che a sua volta nasce dalla fede nella scienza, nata
nei secoli precedenti, e che scardina qualsiasi questione morale dall’ambito
economico, e alla quale non riesce a contrapporsi alcun altra linea o corrente
alternativa, se non piccoli spunti isolati, quali quelli di Tolstoj e pochi
altri.
«A questo indubbio stato delle
cose i credenti nel progresso e nello sviluppo storico aggiungono un altro
elemento non dimostrabile e cioè che l'umanità nelle epoche precedenti abbia
goduto di meno benessere e che questo sia sempre minore più ci si inoltri nel
passato e, viceversa, sempre maggiore quanto più si vada avanti. Da ciò ne
deriva che per un agire fruttuoso occorra agire soltanto in rapporto alle
condizioni storiche e che ogni azione, secondo la legge del progresso, conduca
di per sé ad un miglioramento del benessere comune e che quindi tutti i
tentativi di fermare o contrastare il movimento della storia siano inutili.
Tale conclusione è illegittima perché il secondo elemento, quello sul continuo
migliorarsi dell'umanità sulla strada del progresso, non è per nulla dimostrato
e risulta ingiusto»
Oggi
però le cose sembrano cambiare, volenti o nolenti, pare proprio che i limiti
del pianeta e della nostra tecnologia ci faranno comprendere, o quanto meno ci
mostreranno, che il nostro sistema non può più perdurare, che su molti punti ci
siamo sbagliati, che la vita è meravigliosa e non è controllabile e
circoscrivibile scientificamente, che la bellezza e la gioia della vita non
sono dove le avevamo cercate sino ad ora e che forse un mondo migliore è
possibile veramente e che dipende da noi, da noi soltanto e da nient’altro.
Le
citazioni sono estratte da:
Lev
Tolstoj - La religione del progresso e i falsi miti dell'istruzione - Pungitopo
editrice
Renaud
Garcia - Tolstoj, contro il fantasma di onnipotenza - Jaca book
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