«Un uomo è ricco in proporzione del numero di cose delle quali può fare a meno»
Henry David Thoreau, Walden, ovvero vita nei boschi

sabato 26 dicembre 2015

Desiderio di pace - una poesia di Andrea Calcagnile


Desiderio di pace

Pace,
sbrigati che ti stiamo aspettando,
sei l’auspicio di tutti,
quando arriverai
il mondo si capovolgerà,
non esisteranno più le guerre,
gli omicidi, le calunnie, le supremazie
e le crisi economiche,
e le persone che
niente avranno ricevuto,
mai più soffriranno
e cesserà ogni male,
che si trasformerà in benessere,
solidarietà e fratellanza.
Ma per ora
possiamo solo sperare,
mandare ogni simbolo di pace,
sognare e lodare la pace,
portarla sempre avanti
senza paura come vere persone
e come qualche
personaggio pacifista,
che si è sacrificato per noi.

Andrea è un giovane artista che si occupa di pittura, scultura e poesia. Visita la pagina di Andrea Calcagnile 

mercoledì 18 novembre 2015

Ennesimo attacco terroristico: la solidarietà non basta



«Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi» 
Tiziano Terzani 


Di fronte ai fatti di Parigi, facile è esprimere solidarietà, indignarsi davanti ad atti di brutalità gratuita, ancor più facile è reagire di pancia, puntare il dito contro il nemico e cominciare a inneggiare all'Europa democratica che accoglie, tollera, difende, protegge a differenza di altri paesi ritenuti incivili; più difficile, molto più difficile, è fare un ripassino di storia e un esamino di coscienza su quello che l'Occidente ha fatto negli ultimi sette secoli, e continua a fare oggi, a tutte le altre civiltà e culture del nostro pianeta. 

La situazione è molto complessa e non si risolve certo facendo drastiche semplificazioni, a mio avviso quello che occorre è una visione più ampia, nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Nessuno vuole giustificare atti di violenza, tanto meno se rivolti a normalissimi cittadini indifesi, nessuno vuole schierarsi dalla parte dei terroristi, soltanto dare un punto di vista ulteriore che non è facile né spontaneo. Giusto dare solidarietà, giusto indignarsi, giusto riaffermare i valori della pace, della nonviolenza e della fratellanza, su cui la maggior parte di noi è totalmente d'accordo. Almeno a parole. Tutto questo è necessario, ma non è sufficiente, almeno non più, ora. Quello che occorre fare è un riesame della situazione che ci ha condotto fino a questo momento e trarre le dovute conclusioni sulla base di un'analisi ampia, approfondita e lucida. 

L'Occidente negli scorsi secoli ha demolito, in alcuni casi, o colonizzato, in altri, tutte le civiltà del pianeta, di tutti i continenti. Dalle civiltà americane, sterminate come quelle australiane, alle civiltà africane sottomesse e sfruttate per secoli e secoli, nonché le civiltà asiatiche colonizzate a ferro e fuoco, o costrette con le armi ad aprire i loro confini al commercio, come nel caso della Cina e del Giappone, che si sono occidentalizzate culturalmente pur rimanendo di fatto autonomi. 

Tutte queste civiltà, in tempi e modalità diverse, sono state cancellate o deformate per essere soggiogate al volere della civiltà occidentale: ritenuta per via scientifica la più giusta e la migliore senza alcun dubbio. Questa nostra arroganza ci ha condotto negli ultimi decenni a colonizzare le menti e gli spiriti della maggior parte delle persone del pianeta, indipendentemente dal luogo geografico di nascita, grazie ai miti del progresso, dell'abbondanza, della crescita senza fine. La civiltà islamica è probabilmente l'unica civiltà "sopravvissuta" che è oggi in grado di poter contrastare, sebbene ad armi impari, la civiltà occidentale in questa sua deriva totalitaria e totalizzante. 

Non voglio dire che la nostra cultura sia pessima in ogni aspetto, e le altre siano migliori, tutt'altro. Ognuna ha certamente degli aspetti positivi e negativi di cui tener conto, ma è altrettanto certo che il dominio incontrastato di una sola di queste culture sia la causa di un malfunzionamento generale della nostra società globalizzata. Che si parli di questioni di politica internazionale, di ambiente o di economia, tutto è interconnesso e perciò non separabile e nettamente distinguibile. Dovremmo osservare di più la natura, contemplandola e studiandola per comprendere e migliorare, non per dominarla. Se lo facessimo davvero, capiremo quello che scrisse Terzani alla vigilia dell'undici settembre: «Così come nella biologia ci deve essere la biodiversità perché la vita continui, nella cultura ci deve essere la diversità culturale perché ci sia la cultura». 

Soltanto il fiorire di nuove culture e possibilità, soltanto l'abbandono delle nostre sicurezze occidentali, soltanto ripensando ciò che diamo per assodato e facendo, non uno, ma diversi passi indietro potremo sbloccare la situazione attuale, sciogliere le crisi globali senza ricorrere alla violenza, compiendo, finalmente, un bel balzo in avanti, non nel progresso tecnico o scientifico questa volta, ma squisitamente umano.


Leggetevi questa storiella e riflettete 

lunedì 2 novembre 2015

Papa Francesco per la decrescita



«Non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologia ed economica» 

Papa Francesco 

Nella sua enciclica sulla cura del nostro pianeta, intitolata Laudato sì, Papa Francesco non usa mezzi termini per denunciare una situazione di crisi sistemica e di deriva che è da decenni sotto gli occhi di tutti, ma che solo pochi, purtroppo, riescono a riconoscere e decifrare. Lo possiamo affermare con discreta sicurezza: il Papa è per la decrescita, per un ripensamento radicale della nostra società moderna. 

In questo contesto, vogliamo prescindere dalla figura storica e attuale del Papa, dal suo ruolo, e dal ruolo della Chiesa di cui è al vertice, su cui si potrebbe dibattere all'infinito; mentre vogliamo concentrarci semplicemente su questo testo, e commentarlo laicamente. 

Prima di tutto, fa piacere senza dubbio che una voce così autorevole in ambito internazionale prenda una posizione così netta e decisa. Era ora! Ci viene da esclamare in senso liberatorio. D'altra parte non fa altrettanto piacere vedere che questa enciclica non sia presa a riferimento e non sia discussa dai personaggi di riferimento della nostra società, né tanto meno dai mass media. Certo, a pensarci bene, non potrebbe essere altrimenti, visto che tali entità sono figlie dirette della società tecnocratica basata sulla crescita e lo sviluppo senza sosta. 

Ad ogni modo, il testo è molto chiaro, semplice nella sua chiarezza e piuttosto approfondito, pur non entrando in noiose analisi di dati e grafici dettagliati. Si evince subito la netta posizione del pontefice, già dalle prime pagine: «Dobbiamo cercare soluzioni non solo nella tecnica, ma anche in un cambiamento dell’essere umano, perché altrimenti affronteremmo soltanto i sintomi». 

In questa enciclica il Papa tenta di pareggiare i conti con la Scienza e la Tecnologia, dopo che sono passati secoli dalla loro comparsa e incontrastata e vanagloriosa affermazione. Francesco cerca di rimettere la Scienza nella sua scatola e di svelare nuovamente l'enorme e incontenibile potenziale mistico insito nella vita. Lo fa a proprio modo, forse dal pulpito più scomodo e compromesso, ma lo fa, e questo penso sia quello che conta maggiormente. E questa posizione è una posizione storica, che da Galileo, la Chiesa aveva abbandonato totalmente, scendendo a patti con il riduzionismo scientifico e il progressismo tecnocratico. 

Oggi, invece, Francesco riafferma qualcosa che già tanti fuori dalla Chiesa gridano da anni, se pur inascoltati:«La tecnologia che, legata alla finanza, pretende di essere l’unica soluzione dei problemi, di fatto non è in grado di vedere il mistero delle molteplici relazioni che esistono tra le cose, e per questo a volte risolve un problema creandone altri». 

Il concetto è semplice e banale. Ridimensionare la fede assoluta e cieca nella scienza, che sicuramente ha aiutato l'essere umano nel suo percorso, ma nello stesso tempo ha creato e sta creando enormi problemi, di scala e di complessità crescenti col crescere dello sviluppo scientifico e tecnologico. La scienza e la tecnica non possono risolvere tutti i problemi: soprattutto non possono risolvere i problemi che esse stesse hanno sollevato. Per fare ciò occorre agire su un altro livello, che fino ad oggi è stato raramente considerato, e mai sviluppato. 

Sono numerose ed esplicite le osservazioni del Papa che riguardano la tecnologia: 
«La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fin di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane». 
«Cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale». 
«Non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologia ed economica». 
«Occorre riconoscere che i prodotti della tecnica non sono neutri, perché creano una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orientano le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere». 
«L’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza, perché l’immensa crescita tecnologia non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza». 

Il Papa accenna anche al dominio culturale dell'occidente, che oramai regna in solitudine, sottolineando quanto siano pericolose le monoculture, oltre alle monocolture, e quanto sia importante invece la diversità culturale proprio come la biodiversità, fonte di vera ricchezza e prosperità. 

«La scomparsa di una cultura può essere grave come o più della scomparsa di una specie animale o vegetale. L’imposizione di uno stile egemonico di vita legato a un modo di produzione può essere tanto nocivo quanto l’alterazione degli ecosistemi». 

Lo fa, tuttavia, senza ricordare che intere culture, intere tradizioni e popolazioni antiche sono state letteralmente sterminate o piegate alla volontà senza scrupoli dell'Occidente, spesso con la benedizione della Chiesa. Ma questo esula dalla nostra trattazione. 

Arriviamo poi verso la conclusione del testo, nel brano in cui Francesco dichiara senza mezzi termini l'impellente necessità di "una certa decrescita", felice (aggiungiamo noi). 
«Occorre pensare a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre di più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perche si possa crescere in modo sano in altre parti». 

Non è da sottovalutare il fatto che il Papa utilizzi proprio il termine a noi caro, e per l'opinione comune così scomodo e stridente. In una società satura e congestionata come la nostra la decrescita non potrà far altro che bene, se sarà logicamente una decrescita mirata, saggia e consapevole, e non imposta, indotta e iniqua: ovvero una decrescita felice, e non infelice. 

«Dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che potrà offrire altri benefici economici a medio termine». 

Per Francesco esistono altre possibilità, esiste un'altra visione di progresso e sviluppo. Da ritrovarsi in una via di mezzo, in un nuovo equilibrio dinamico, che potrà aprire nuovi scenari, nuove soluzioni, multiple e non uniche e univoche. 

«Da un estremo, alcuni sostengono ad ogni costo il mito del progresso e affermano che i problemi ecologici si risolveranno semplicemente con nuove applicazioni tecniche, senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo. Dall’altro estremo, altri ritengono che la specie umana, con qualunque suo intervento, può essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui conviene ridurre la sua presenza sul pianeta e impedirle ogni tipo di intervento. Fra questi estremi, la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali»

Si apre un vasto scenario quindi. Non una soluzione, ma una varietà di soluzioni. Un'apertura perciò anche a nuove potenzialità umane e ambientali finora inesplorate, perché no. Tutto questo partendo da una riforma della propria interiorità, della propria visione culturale e quindi del proprio comportamento, senza mai scendere a compromessi (in questo caso la via di mezzo è da rifuggire) con un sistema di potere, ma prima ancora di pensiero che è chiaramente superato e volto all'inesorabile declino. 

«Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso».

mercoledì 23 settembre 2015

Ciò che è invisibile, non è detto che non esista




Il nostro problema principale , come società occidentale, è quello di credere che ciò che non si vede, o che comunque non può essere percepito attraverso i sensi, non esista.

Vale per l’inquinamento, spesso invisibile, incolore e inodore, inconsistente perché sotto forma di gas, oppure di radiazioni.Vale anche per tutti quei beni immateriali che arricchiscono e nutrono la vita, come: le relazioni d’amore, l’affetto, la passione, l’amicizia, la pace, il benessere, spesso non considerate o dati per scontati. Allo stesso modo sono invisibili purtroppo anche molti effetti del nostro comportamento quotidiano, così come sono invisibili le relazioni tra cause ed effetti, o meglio la fitta rete di interrelazioni. 

Consideriamo ad esempio un prodotto economico. A confronto con la stessa tipologia di prodotto, che ha costo maggiore, magari anche del doppio, ci chiediamo subito perché costa così tanto questo? 

Ma la vera domanda da porsi sarebbe quella opposta: perché costa così poco l’altro?

Ad esempio come fa un viaggio in aereo a costare meno della metà di un viaggio in treno, magari con tratta minore? Come fa un chilo di verdura del supermercato a costare meno della metà di un chilo di verdura biologica del piccolo produttore?

Un economista vi risponderà subito con termini come economie di scala o con strategie di marketing che permettono di abbattere i costi e aumentare la produttività. Io non sono un economista, e non negherò che ciò sia vero. Ma credo fermamente che i costi di produzione non possano essere abbattuti oltre un certo limite e che per spingersi oltre è inevitabile che i costi economici si trasformino in costi di altro genere, non più a carico delle aziende, ma della società intera e dell’ambiente. Per questo potremmo, e dovremmo, parlare di costi sociali e costi ambientali, che purtroppo sono spesso difficilmente individuabili, sono come invisibili. 

Lo sappiamo che il denaro è una convenzione? Cioè che la moneta non ha nessun valore intrinseco? Questo mi sembra evidente. Con una banconota da cento euro si fa ben poco, si può usare per scriverci sopra o come combustibile per scaldarci un po’ o cuocere qualcosa. In tal senso, allora, valgono molto di più venti banconote da cinque euro che una da cento. 

Questa economia globalizzata e globalizzante sta facendo ricadere i costi di produzione sull'ecosistema, e nient’altro. Ovvero sulla vita, sulla cosa più preziosa che esista. È e sarà la vita, e le sua fondamenta, a pagare tutti i costi invisibili che stiamo accumulando. Dobbiamo divenirne consapevoli. L'unico capitale che esiste è quello naturale, non ce ne sono altri.

giovedì 17 settembre 2015

Come crearsi un progetto di vita e vivere felici - ebook di Matteo Majer - con prefazione di Maurizio Pallante


È uscito il primo libro di Matteo Majer sulla crescita personale, che farà parte di una collana di ebook su come attuare "in pratica" la decrescita tutti i giorni. L'altro testo della collana è Andare a piedi e in bicicletta che ho scritto con Raffaele Basile. 
Matteo Majer, forte della sua esperienza personale, ci condurrà passo passo attraverso un percorso di scoperta di sé e di realizzazione personale, ma non quella indotta da qualche agente esterno, bensì quella propria, quella costruita da noi e per noi. 

Buona lettura!! 

Di seguito la prefazione che Maurizio Pallante ha scritto per questo ebook. 


“C’è solo un tipo di successo: quello di fare della propria vita ciò che si desidera”. 
H. D. Thoreau 


La prefazione di Maurizio Pallante

Non sono uno specialista, ma solo un modesto conoscitore della materia trattata in questo libro da Matteo Majer, per cui quando mi ha chiesto di scriverne una prefazione mi sono un po’ stupito. Mi sono però bastate poche pagine per capire che evidentemente mi conosce meglio di quanto io non credessi – del resto è il suo mestiere – e ha capito che c’è una profonda sintonia tra le sue e le mie scelte esistenziali. Perché di questo si tratta: non di un manuale scritto soltanto sulla base di una competenza tecnica, ma di un lavoro che scaturisce da una riflessione sulla sua esperienza di vita, sul suo percorso personale fuori dagli schemi, che lo ha portato a vivere e a lavorare in modi inusuali rispetto a quelli che ci si aspetterebbe da un professionista con la sua specializzazione, ma rispondono alle sue esigenze. E anche io mi sono sempre sentito soffocare da un sistema di valori e da modelli di comportamento che tendono a rinchiuderci in un ruolo ben definito, a uniformare le nostre scelte e le nostre aspettative, a omologarci, per ripetere un verbo caro a Pier Paolo Pasolini. Ho sempre vissuto a disagio in questa società che condiziona profondamente gli individui inducendoli a comportarsi in modo competitivo, anzi a ritenere che la competizione sia il modo naturale di rapportarsi con gli altri, che utilizza in maniera massiccia e senza scrupoli gli strumenti della comunicazione di massa, l’esempio degli altri, le istituzioni, la pubblicità, un sistema ben oliato di punizioni e premi per lo più economici, per rattrappire la ricchezza e l’irripetibilità di ogni individuo sulla sola dimensione del produttore e del consumatore di merci. Andando avanti nella lettura mi è venuta alla mente in modo naturale una frase di Gandhi che ho preso come modello per le mie scelte di vita e per il mio impegno nel Movimento per la decrescita felice: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. La scelta che mi accomuna con Matteo, quella di spendere un po’ delle nostre energie in questo movimento, parte dalla consapevolezza che quando parliamo di decrescita, non intendiamo riferirci a una teoria economica, che può apparire stravagante perché non si sente che ripetere come un mantra la parola crescita, ma stiamo facendo un atto di disobbedienza civile, stiamo affermando un’autonomia di pensiero, esprimiamo una concezione del mondo e una filosofia di vita. E lo facciamo perché siamo convinti che la società in cui viviamo non ha futuro, perché porre a fine delle attività produttive la crescita della produzione, oltre a essere un’utopia negativa, una distopia, è anche un non senso. Come si può pensare a una crescita infinita in un mondo che, per quanto grande, è finito? Che senso può avere un fare finalizzato a fare sempre di più? Come si può fermare questa corsa verso il baratro? Come si può tacitare il pifferaio che sta portando l’umanità verso la catastrofe? Il libro di Matteo è una risposta a queste domande da un punto di vista specifico: quello dei cambiamenti individuali da attuare. Come se ne potrebbe fare a meno? Non sarà certo la politica a salvarci. Su questo credo che non ci siano parole da spendere. Ma non sarà nemmeno soltanto un impegno nella società civile, un’elaborazione teorica finalizzata a indicare soluzioni pratiche in ambito tecnologico, energetico, urbanistico, agricolo, sociale, economico ecc. Tutto questo è importante ma non sufficiente se non sarà accompagnato da profondi cambiamenti negli stili di vita individuali. Pare che questa sia la cosa più difficile da fare, ma basta pensare a quanto sono cambiati gli stili di vita negli ultimi settant’anni, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, per capire che non è impossibile. Se li abbiamo cambiati una volta, non possiamo farlo di nuovo? Si potrà obiettare che il cambiamento iniziato negli anni cinquanta del secolo scorso è stato sostenuto da un impressionante schieramento di agenzie sociali, da ingenti finanziamenti, da professionisti superpagati. E chi si propone di capovolgere questa situazione non ha neanche una parte infinitesimale di quei mezzi. In realtà le persone cambiano i propri stili di vita se intravedono prospettive più desiderabili. E di prospettive più desiderabili ce ne sono già, ma la maggior parte delle persone, anche quelle che vivono in uno stato di disagio esistenziale molto forte, non le vedono perché non sono abituati a vedere dentro di sé. Col suo libro di Matteo si propone di aiutare le persone a vedere dentro di sé, a conoscere le proprie potenzialità di cambiare strada, di vivere in maniera più adeguata alle loro esigenze. Di essere se stessi. Di conoscere quanto li rende unici e irripetibili. Di fare scelte esistenziali che rispondono alle loro esigenze profonde. Cosa ci può essere di più desiderabile che vivere in modi rispondenti alle proprie esigenze più profonde? “Sii il cambiamento...”. Fin qui lo psicologo, il coach, il motivatore ci arrivano con le proprie competenze professionali. Basta l’etica per utilizzarle non per anestetizzare il disagio di chi li interpella e consentirgli di riprendere a seguire con meno problemi i comportamenti stabiliti per il suo ruolo sociale, ma per aiutarlo a capire cosa risponde alle sue esigenze e motivarlo a compiere le scelte necessarie a seguirle. Ma la seconda parte della frase di Gandhi implica un impegno sociale che non può essere assolto individualmente dallo specialista. Non basta aiutare gli individui a liberarsi dai condizionamenti sociali e culturali che li spingono a seguire comportamenti massificati ed eterodiretti, occorre anche intervenire per cambiare la società che crea quei condizionamenti e causa i disagi esistenziali. Col suo libro Matteo dà un contributo anche a questo aspetto, quando racconta le storie di chi ce l’ha fatta a cambiare drasticamente, di chi ce l’ha fatta a essere se stesso e come ha fatto a farcela. Perché le esperienze riuscite hanno una capacità di far riflettere, e di incoraggiare, più di tante parole. Basta ricordare la frase di Gandhi che precede quella riportata: “Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni”. Ma non si limita a questo. Chiedendomi di scrivere la prefazione al suo libro, vuole dare un’indicazione precisa ai suoi lettori. Vuole rendere esplicito che le sue riflessioni sono un tassello di una ricerca più ampia, finalizzata a costruire un paradigma culturale alternativo rispetto a quello delle società che hanno ridotto gli esseri umani a mezzo di un sistema economico che ha come fine le cose: la crescita della produzione di merci. Società che sono arrivate al loro capolinea della storia, come documenta principalmente il livello raggiunto da tutti i fattori della crisi ambientale: emissioni di CO2, quantità di rifiuti non biodegradabili, anticipazione dell’overshoot day al 15 agosto, picco del petrolio, emissioni di sostanze inquinanti, contaminazioni nucleari, riduzione della biodiversità, mineralizzazione dei suoli agricoli eccetera. Quando una fase della storia si chiude, il paradigma culturale su cui ha omologato i modi di pensare e il sistema dei valori degli esseri umani, entra in crisi e cominciano a emergere frammenti di una cultura alternativa in tutti i campi del sapere. Quello è il momento in cui occorre tentare di metterli insieme per costruire una visione alternativa del mondo. Chiedendomi la prefazione, in quanto esponente di un movimento che si è posto l’obiettivo di favorire i collegamenti tra i contributi settoriali che stanno emergendo, Matteo ci vuol dire che la sua ricerca è uno di questi contributi e che desidera collegarla con gli altri che stanno emergendo. 

Maurizio Pallante

martedì 1 settembre 2015

La pedagogia delle catastrofi



«Le ineluttabili disfunzioni della megamacchina (contraddizioni, crisi, grandi rischi tecnologici, disfunzioni) sono fonte di insopportabili sofferenze e causano disastri che è necessario deplorare. Si tratta, nondimeno, di occasioni utili per prendere coscienza della reale situazione in cui viviamo, per metterla in discussione e rifiutarla, se non addirittura per ribellarsi»

Serge Latouche 

Le catastrofi dovrebbero far riflettere sulle loro cause e facilitare dei cambiamenti, se ci occupiamo solo degli effetti non cambierà nulla, tutt'al più peggiorerà. Questo vale quando le cause sono attribuibili al comportamento dell'uomo. È questo il caso degli stravolgimenti climatici (cambiamenti non è a mio avviso il termine adatto) che si stanno verificando in tutto il globo, in modo sempre più visibile col passare del tempo. Non ci sono evidenze scientifiche dirette che comprovino la relazione tra questi avvenimenti tragici e l'impronta ecologica umana: ognuno si dà la spiegazione che vuole, e si creerà la visione che preferisce. Da parte mia, non ho bisogno di prove scientifiche dimostrabili per comprendere che l'uomo sta degradando il suo ambiente e quindi se stesso, in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole che sia. Come non ho bisogno di dimostrazioni scientifiche per capire che un inceneritore è una follia, che incendiare i rifiuti di un'economia che depreda le risorse naturali a un ritmo sempre più incalzante è sacrilego, a prescindere di quanto siano buoni e tecnologicamente avanzati i sistemi di abbattimento degli inquinanti emessi.

Il cataclisma che si è abbattuto a Firenze il primo agosto, una vera e propria catastrofe ben localizzata in un'area ristretta, potrebbe essere una buona occasione per tutti. Una buona occasione da cogliere, politicamente, culturalmente, umanamente, per fare una riflessione, per mettere in discussione, anche solo per un attimo, qualcosa che per noi fino ad oggi è stato del tutto scontato. Perché nasca forse un dubbio, una minima incertezza che sia capace di farci fare un passo indietro, o quantomeno ci faccia sostare un attimo a riconsiderare cos'è la nostra vita, e cosa vale la pena farne. 

Tre uragani in dieci mesi, nel solo Comune di Firenze, tre eventi climatici senza precedenti: provate a chiedere ai più anziani. Venti oltre i centocinquanta chilometri orari, pioggia di intensità inimmaginabile. Davanti a questi eventi, parlare di prevenzione fa quasi ridere: non siamo abituati a certe manifestazioni, e il guaio è che dovremmo farlo molto rapidamente, senza tuttavia poter controllare la forza bruta di Madre Natura quando si scatena in modo così intenso. Le cause di molte delle catastrofi ambientali che si stanno verificando solo in parte sono attribuibili alla mancata prevenzione, alla manutenzione del territorio, quanto a un vero e proprio stravolgimento ambientale provocato da decenni e decenni di sviluppo incosciente. 

Di fronte a tale evidenza, molti cercano spiegazioni negazioniste (l'ultima che ho sentito: "questi eventi si sono sempre verificati, magari avvenivano nei boschi e nessuno ci faceva caso") oppure anche se in certi casi si riconosce le nostre responsabilità non si va oltre all'intervento sugli effetti delle catastrofi, mai si arriva alla causa ultima. Il motivo di ciò è che non si considera minimamente concepibile un ripensamento dei dogmi su cui la società dei consumi è stata fondata ed ha prosperato. Non ci sono alternative. L'unica alternativa è tornare indietro, regredire verso l'età della pietra, come se ci muovessimo su una linea retta in cui le uniche possibilità fossero procedere avanti o andare indietro. 

Effettivamente l'attuale sistema economico viaggia su un binario ben preciso, che può condurre solo al baratro, ma per fortuna abbiamo la possibilità di rallentare il nostro treno e, quando saremo in grado, di scenderne per proseguire il nostro cammino verso infinite direzioni. La vita è questa. Non è un binario a senso unico, dove esiste un'unica certezza, il dogma della crescita infinita, e nessuna possibilità. La vita è uno spazio aperto, fatto di innumerevoli percorsi alternativi, dove non c'è nessuna certezza, ma "soltanto" infinite possibilità. 



Un programma per la decrescita 
(estratto da "La scommessa della decrescita" di Serge Latouche)

1) Tornare a un impatto ecologico sostenibile per il pianeta, ovvero a una produzione materiale equivalente a quella degli anni sessanta - settanta

2) Internalizzare i costi dei trasporti

3) Rilocalizzare le attività

4) Ripristinare l'agricoltura contadina

5) Trasformare l'aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi, fio a quando esiste la disoccupazione

6) Incentivare la "produzione" di beni relazionali

7) Ridurre lo spreco di energia di un fattore 4

8) Penalizzare fortemente le spese per la pubblicità

9) Decretare una moratoria sull'innovazione tecnologica, tracciarne un bilancio serio e orientare la ricerca scientifica e tecnica in funzione delle nuove aspirazioni


Fotografia scattata sul Lungarno Colombo a Firenze, il giorno dopo il fortunale del primo agosto

lunedì 24 agosto 2015

Un passo alla volta



«È così: certe volte si ha davanti una strada lunghissima. Si crede che è troppo lunga, che mai si potrà finire, uno pensa. E allora si comincia a fare in fretta. E sempre più in fretta. E ogni volta che alzi gli occhi vedi che la strada non è diventata di meno. E ti sforzi ancora di più e ti viene la paura e alla fine resti senza fiato … e non ce la fai più … e la strada sta sempre là davanti.

Non è così che si deve fare. Non si può mai pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera, capisci? Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro, al prossimo colpo di scopa. Sempre e soltanto al gesto che viene dopo. Allora c'è soddisfazione; questo è importante perché allora si fa bene il lavoro.

Così deve essere. E di colpo uno si accorge che, passo dopo passo, ha fatto tutta la strada. Non si sa come … e non si è senza respiro. Questo è importante»

Estratto da Momo di Michael Ende

lunedì 10 agosto 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen Rufu - parte 13/13



Anno 2020

Pianeta Terra

Il generale Swong sentite le ultime parole del diario dell’agente nome in codice Panda della Savana, abbassa per un attimo la testa, ha come un momento di esitazione. Ma subito dopo alza lo sguardo ferreo e, con la solita voce impavida, tuona i suoi ordini ad alta voce. 

«Che questo documento e tutto ciò che è con esso sia distrutto immediatamente, incenerito. Che non risulti nessuna traccia del suo contenuto, per nessuna ragione»

I soldati, se pur con rammarico, fanno l’unica cosa che sanno fare: eseguono gli ordini. Nessuno, tra operatori, agenti, scienziati, osa opporsi a questa drastica decisione. 

Il progetto Crono è l’unico dei progetti ad aver dato delle risposte positive, ma i suoi risultati vengono distrutti. Nessuno capisce il motivo. 

L’OIFU ha ufficialmente fallito tutti i suoi tentativi, questa è la relazione finale. 

Alla riunione del comando generale dell’OIFU, il comandate Swong riferisce a tutti i più potenti uomini del mondo l’esito infausto del progetto Crono nel quale ha perso la vita l’agente Neil Norton, nome in codice Panda della Savana. 

«Il mondo intero è allo sfascio» conclude il suo discorso il comandante «ben presto verrà meno la nostra capacità di gestire la situazione. Sarà il caos totale. L’unica alternativa rimasta, come sapete bene signori, è il piano Haunt. Dobbiamo trasferire tutte le nostre basi nelle isole pacifiche e costruire una roccaforte di resistenza con le migliori tecnologie. La resistenza del progresso e dello sviluppo umano contro il degrado che ci sta abbattendo. Dobbiamo resistere al collasso generale e prepararci a guidare l’umanità nel prossimo futuro in una nuova e ancor più florida epoca di crescita»

Il comando generale ratifica all’unanimità l’adozione del piano Haunt. Dal giorno seguente il mondo è lasciato al suo inevitabile destino.


Gli uomini potenti del mondo non si arrendono, non si arrenderanno mai. 

L’umanità sarà pronta al cambiamento?

Non lo possiamo sapere. 

L’unico ad aver visto il cambiamento è stato l’agente speciale Neil Norton nome in codice Panda della Savana. Ma non ha fatto ritorno dal suo viaggio nel tempo ed ogni prova che ha raccolto è stata volutamente distrutta dal potere. 

Perciò, soltanto la fiducia nell’essere umano potrà permetterci di cambiare, nient’altro. 

Non abbiamo nessuna certezza, soltanto infinite possibilità.

lunedì 3 agosto 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen Rufu - parte 12/13



Progetto Crono.

Giorno sette.

Nella mattina ho raccolto tutti i miei appunti, i documenti e le fotografie che sono riuscito a fare e ho preparato un plico per chiudere il report della missione. Tra poche ore farò ritorno all’anno duemilaventi per concludere il progetto Crono. 

Prima di pranzare per l’ultima volta con Nicholas e tutti i suoi parenti e amici, gli ho parlato. Gli ho raccontato della mia esperienza d’amore con Creta, ma soprattutto gli ho svelato il mio segreto: ovvero di non essere un rifugiato delle isole dimenticate, ma di provenire dal passato per una missione molto importante. Nicholas non ha fatto nessun commento, non pareva così stupito di sentirmi dire ciò. Ha sorriso e mi ha detto che prima che parta vuole mostrami un’ultima cosa. 

Mi ha accompagnato in un luogo che non avevo mai notato prima. Si chiama Pozzo della Saggezza, e si trova in una vecchia chiesa sconsacrata. Là ci sono maestri di ogni sorta. Là si praticano meditazione e pratiche spirituali avanzate. I maestri più esperti insegnano a tutti i segreti per sfruttare il proprio spirito, liberando il potenziale inespresso del proprio inconscio. 

Nicholas mi spiega che ogni domenica è dedicata in particolare alla cura dello spirito. Ci sono lezioni sulla meditazione, sulla medicina e la cura del corpo, sul pensiero trascendente. 

«In pochi anni di pratica le persone sono in grado di raggiungere capacità che agli occhi della mente razionale appaiono sovrannaturali» mi spiega Nicholas «impariamo a comunicare telepaticamente, a parlare con i defunti, a guarire dalle malattie, alcuni sono persino in grado di nutrirsi attraverso i raggi del sole o sintetizzando carboidrati dall’energia dell’ambiente»

L’espressione del mio volto deve cambiare improvvisamente, oscurandosi, perché Nicholas aggiunge: «Sapevo che ti avrebbe scosso conoscere queste possibilità, perciò ho aspettato a fartele conoscere. Pensavo che prima avessi bisogno di ambientarti un po’. Ma ora, prima che tu vada, voglio farti l’ultimo regalo, voglio che tu impari la meditazione avanzata. Non ci vuole molto tempo, se il tuo cuore è disposto ad accoglierla. E io penso che tu sia pronto adesso»

Sono senza dubbio scioccato e spaventato. Decido comunque di fidarmi e affidarmi a Nicholas. 

Mi introduce in una piccola stanza sul retro della chiesa. Là un vecchio mi accoglie, mi fa sedere di fronte a lui per terra e comincia ad osservarmi. Non dice niente e non fa niente. Mi osserva.

Poi chiude gli occhi. 

Il mio corpo comincia a tremare. Un tremore naturale. Dalla mia bocca esce un sospiro. Un sospiro naturale. Una liberazione. La mia mente si inabissa, una nuova coscienza mi pervade, la coscienza di me stesso. L’universo attraversa adesso il mio spirito. Mi travolge nel suo espandersi.

Ho provato una sensazione che non posso esprimere in nessun modo. Quando esco dalla chiesa con Nicholas sento di aver perso una parte di me, come se fossi adesso un’altra persona, faccio fatica a riconoscermi nel mio corpo, come se adesso non avessi più nessun appiglio, nessuna scusa in cui rifugiarmi. L’idea e la concezione che ho di me stesso e del mondo che ho attorno non sono più le stesse. Ma non mi sono mai sentito così sicuro, così felice, e così vivo prima d’ora.

Nicholas accorre in mio aiuto: «Non ti preoccupare, è normale sentirsi smarrito per un po’. Hai fatto un bel salto evolutivo a livello spirituale. Per te è stata una bella accelerazione. Vedrai che ne trarrai immensi benefici» 

Torniamo a casa di Nicholas. Vado nella mia stanza e raccolgo le mie cose. Passo nelle altre stanze e nella corte a salutare tutti gli amici. Ognuno mi guarda e mi dona un bacio. Nessuno dice niente. Nessuno aggiunge nulla. Nessuno saluta. 

Nicholas mi stringe in un abbraccio. E mi sussurra queste parole: «Spero che tu faccia tesoro di quello che hai visto e sentito qua»

Ripercorro lo stesso sentiero che mi ha condotto al paese il primo giorno. Arrivo alla cabina in tempo per il mio ritorno al passato. Tutto è pronto. La mia missione sta volgendo alla conclusione.


Progetto Crono.

Giorno sette.

Sono qui davanti alla cabina e mancano pochi minuti all’allineamento temporale. 

Ho preso una decisione. Una decisione maturata in me, e oramai evidente. 

Non partirò. Non tornerò nel luogo da dove vengo. 

So già che l’essere umano sarà in grado di giungere a questa meta, sono l’unico uomo a conoscere questa verità, ad averne visto le prove tangenti. Resterò in questo mondo, perché è diventato il mio mondo. E oltre al plico con tutti i documenti che testimoniano la riuscita della mia missione e la chiusura del progetto Crono, lascio nella cabina anche questo mio diario, e queste mie ultime parole, che siano un messaggio di speranza per tutti gli uomini del ventunesimo secolo: 

“Siate sempre voi stessi e abbiate fiducia. Non si può imporre a un albero di diventare qualcosa di differente, non si insegna a un fiore come sbocciare. L’albero e il fiore sanno per natura ciò che li conduce a creare i loro frutti, e così spontaneamente fanno, senza imposizioni. Perché ciò dovrebbe essere diverso per l’essere umano?”

lunedì 27 luglio 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen rufu - parte 11/13


Progetto Crono.

Giorno cinque.

Stasera siamo andati tutti insieme, Nicholas, i suoi figli più piccoli e altri amici, in un grande prato poco distante a vedere le stelle. 

Le poche e tenui luci della città e l’assenza di inquinamento atmosferico rendono il cielo notturno cristallino, nitido come un vetro ben pulito, perfetto. Sembra quasi che lo si possa toccare, alzando un braccio verso l’alto. 

Le persone si raccolgono in gruppo e cominciano a recitare un mantra, poi cantano, o così pare a me. Cantano con voci vibranti di passione. Nella penombra riesco a vedere comunque l’emozione nei loro volti. Anche io mi emoziono. Non capisco affatto quello che stanno facendo, ma ne rimango travolto. C’è un’energia positiva, un benessere che si respira, di cui tutto l’ambiente è contaminato.

Finito il canto, accendiamo delle candele e cominciamo a fare dei giochi. Tutti si divertono, ridendo e scherzando. Alcuni ragazzi più giovani si allontanano nell’oscurità in gruppo. 

Sembra che non ci siano mai state altre notti prima di questa. Sento che non ci può essere armonia più vasta.



Progetto Crono.

Giorno sei. 

Oggi ho chiesto a Nicholas se può farmi vedere le “fabbriche” dove costruiscono tutto quello di cui hanno bisogno, dai vestiti ai materiali più disparati. 

Domani dovrò rientrare e penso di poter raccogliere ancora delle informazioni utili. In realtà il messaggio che porterò sarà un semplice ma vero messaggio di speranza e determinazione. Adesso sappiamo che possiamo davvero cambiare il mondo. Io sono testimone di questa speranza. 

Iniziamo col visitare il primo laboratorio artigianale.

«Qua costruiscono piatti, vasi, recipienti, ogni cosa in ceramica e terracotta» dice Nicholas mentre entriamo. 

Mi stupisco nel constatare che si tratta semplicemente di botteghe artigiane, come esistevano in passato, dove un maestro insegna e molti apprendisti “accolgono l’arte del fare” come mi dice Nicholas. Se non fosse per qualche accortezza in più dal punto di vista ecologico, direi che si tratta di attività del tutto conosciute, niente di eccezionale, nessuna scoperta scientifica sensazionale o tecnologia avanzata. 

Lo stesso vale per il maglificio e il tessificio dove si producono vestiti e tessuti. Poi passiamo allo strumentificio dove si creano differenti tipi di strumenti, dai coltelli alle zappe, dai secchi alle forbici. Poi in un mobilificio, un calzaturificio e un erbaiolo dove si raccolgono erbe e si creano composti per ogni tipo di disturbo o per diete specifiche. 

«E per i materiali da costruzione come fate? Cemento, acciaio … »

«Tutti gli edifici sono fatti in terra e paglia, e con legno per le strutture più problematiche»

«Quindi non esistono industrie di nessun genere?»

«Qui a Gardenia no, in alcune macroregioni ci sono delle industrie ma sono più che altro dei laboratori tecnologici o chimici dove si creano elementi elettronici oppure composti chimici e dove tutti i materiali impiegati vengono riutilizzati al cento per cento»

Non avrei mai pensato che fosse stato possibile un mondo senza automobili, senza industrie, senza denaro. E tuttora che ci sto vivendo, mi pare ancora impossibile. 

Mentre mi avvio alla fine del mio viaggio nel futuro mi rendo sempre più conto che non esiste nessuna scoperta sensazionale, nessuna tecnologia o innovazione avanzata che potrà risolvere ogni problema. Piuttosto sarà un ripensamento totale della nostra vita e della nostra visione delle cose. 

Sorrido a Nicholas che mi guarda con curiosità, accorgendosi della mia espressione di stupore e incredulità. 


Nel pomeriggio decido di fare una passeggiata tra gli alberi, lungo il fiume. Per riflettere e pensare ancora a cosa posso raccogliere prima del mio ritorno. Mancano poco più di ventiquattro ore. Mi devo preparare. Non ho tempo da perdere. 

Lungo la sponda del fiume, all’ombra di un salice, siede una donna. Porta un fiore azzurro sul vestito e mi guarda con intensità struggente. 

Mi ricordo l’episodio di Faust. Il fiore azzurro indica il proprio desiderio di conoscere persone, di entrare in relazione affettiva con qualcuno. Il solo pensiero mi imbarazza e mi emoziona. Sto per passare oltre e far finta di niente. 

Decido poi, senza vera cognizione, di avvicinarmi alla donna e di rivolgerle un saluto spontaneo. Senza malizie. Lei sorride, e cominciamo a parlare. Mi invita a sedermi accanto a lei. 

Si chiama Creta e ha occhi verdi, di fata. 

C’è un’attrazione, un’elettricità tra di noi, qualcosa che non posso descrivere. Siamo due tipi diversi, anche se non ci conosciamo, questo è evidente. La mia formazione militare e la mia dedizione all’ordine e alle regole non hanno niente a che fare con i suoi sguardi e suoi sorrisi, liberi, espressivi, genuini. 

L’attrazione che provo per Creta non è soltanto fisica, è un affetto, una tenerezza che neanche credevo di possedere. Lei è stata capace in pochi istanti di svelarmi infiniti sentimenti, nascosti. 

Ce ne andiamo per una passeggiata, poi ci fermiamo a casa sua e lì mi invita ad entrare per bere qualcosa insieme e continuare la nostra conversazione. 

Il suono della sua voce è la melodia più dolce che abbia mai sentito. Il suo volto l’espressione di gioia più pura che abbiamo mai visto. Il suo solo contatto il brivido più potente che mi abbia mai colpito. 

Facciamo l’amore per ore. Non so quante. 

Sappiamo pochissimo l’uno dell’altro, ma ci intendiamo alla perfezione. Ciò mi stupisce, e mi rasserena profondamente. Faccio il miglior sesso della mia vita, in una maniera così intensa e così semplice che mi sembra di aver perso oggi la mia verginità. 

Ci salutiamo con baci e carezze. Io le dico che devo partire. Lei mi dice semplicemente che avrebbe piacere di ricontrarmi presto. Non aggiungo altro, non le spiego altro, ci lasciamo come degli amanti sicuri di un loro prossimo incontro d’amore. 

Tornando verso casa di Nicholas per la cena, mi sento come un neonato al suo primo vagito.

Domani è il mio ultimo giorno a Gardenia. Il mio ultimo giorno nell’anno duemilasettanta.

lunedì 20 luglio 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen Rufu - parte 10/13



Progetto Crono.

Giorno cinque. 

Nicholas mi è venuto a svegliare presto stamattina. 

Mi ha detto: «Svelto, vestiti che ho prenotato i biglietti del treno»

Andiamo alla stazione e partiamo con un treno, rapido e silenzioso. 

«Tutto a energia solare» mi dice con soddisfazione Nicholas. 

«E di notte come fate?»

«Di notte i consumi sono minimi, sono più che sufficienti le turbine posizionate nelle cascate dei fiumi e i motori a biogas che utilizzano tutti gli scarti organici della città»

Usciamo in breve dalla città. La campagna è totalmente immersa nel verde, ed anche qua le persone si spostano a piedi e in bicicletta o con mezzi a pedali. 

«Dove andiamo?» chiedo con trepidazione.

«È una sorpresa» e non aggiunge altro. 

Il viaggio dura poco più di un’ora. Il paesaggio adesso è totalmente cambiato. Ci sono pochi alberi e si respira un’aria pesante. Attraversiamo un piazzale lastricato e ci troviamo davanti a delle torri e delle mura fortificate. Un grosso portone sta al centro e sopra di esso una scritta rossa: “Parco regionale dell’era pre-transizione”. Rimango sbigottito. 

«Che cos’è?»

«Questo è uno dei pochi feudi rimasti in questa regione. Dopo il collasso ambientale ed economico degli anni venti, sono sorti in tutto il mondo dei veri e propri feudi moderni. Con l’indebolimento dei governi nazionali, le persone più ricche e influenti si sono dotate di armamenti ed eserciti e hanno costruito mura attorno alle loro proprietà. Agglomerati urbani e territori interi sono stati così preservati nel tempo. All’interno di questi feudi le persone lavoravano per il padrone, chi come contadino, chi con altri servigi, proprio come nel Medioevo. Questo feudo in particolare è stato lasciato intatto anche dopo la Grande Transizione perché racchiudeva un’intera città ben conservata, e adesso è adibito a parco protetto, una sorta di museo a cielo aperto. In questo posto potrai vedere come usavano vivere oltre cinquant’anni fa le persone. È molto interessante, tutti i ragazzi vengono portati qua in gita. E notando che sei così interessato alla storia, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere visitarlo»

«Sicuramente»

Varchiamo la soglia di ingresso al parco. Attorno a noi non ci sono molte persone, se non qualche gruppetto di giovani che segue le spiegazioni di quella che pare una guida. 

Su alcuni cartelli è scritto ben in evidenza: “Parco artificiale protetto”, “Entrata libera, si prega di mantenere un comportamento rispettoso e di non toccare niente”, e ancora “Per la vostra sicurezza seguite il tracciato colorato”. 

Mi ritrovo immediatamente nel bel mezzo di una città: strade asfaltate, macchine parcheggiate ovunque, semafori, lampioni, cartelloni pubblicitari, spazzatura ovunque, scritte sui muri di enormi palazzi, poi infondo alla strada principale, a qualche isolato di distanza, si scorgono grattacieli e negozi con grosse insegne al neon. Tutto inerte, tutto spento, tutto silenzioso. 

Ci inoltriamo nella giungla urbana, seguendo una striscia colorata sull’asfalto. 

Nicholas mi spiega che le città non erano pensate per gli esseri umani. 

«Le città erano pensate e progettate per le automobili. Ogni parte della città era ricoperta di materiale grigio impermeabile per permettere il transito delle automobili. Ogni persona ne possedeva una: una macchina ingombrante, inquinante e molto pericolosa, che arrivava a pesare anche oltre dieci volte il peso di una singola persona»

Mi fa vedere un incrocio, dove è simulato un ingorgo di traffico.

«Le automobili erano così tante che occupavano tutto lo spazio e si bloccavano sempre creando dei blocchi. Le persone stavano dentro le auto, ben chiuse. Pochissime erano le persone che andavano a piedi, spesso le persone più povere che non avevano i soldi per comprarsi un auto, che comunque desideravano ardentemente possedere»

Mi spiega il funzionamento dei segnali stradali, dei semafori. Poi entriamo in un enorme piazzale stracolmo di automobili. 

«Venivano chiamati “parcheggi” erano ampie zone piene di macchine ferme. Spesso le persone dovevano pagare per tenere la propria auto ferma in un parcheggio e ci voleva tanto tempo per trovare un posto»

Visitiamo anche l’interno di un’abitazione. Qui, dice Nicholas, la macchina che faceva da padrona era la televisione, poi sostituita in parte dai computer e da apparecchi mobili sempre più avanzati.

«Le persone vivevano in grandi edifici suddivisi in piccole stanze. Si chiamavano “appartamenti”. Tutto era studiato per isolare le persone e metterle in competizione. Era molto difficile entrare in relazione con gli altri e persino nelle mura di casa le conversazioni erano rarissime, dato che ognuno aveva il suo televisore o apparecchio elettronico con il quale interferire»

In alcune stanze sono ricreate le situazioni familiari tipiche di quell’era: ci sono fantocci davanti alla televisione, altri davanti a un computer, altri ancora che giocano con videogiochi di realtà virtuale. 

Il tour del parco prosegue nell’area industriale, dove si possono visitare fabbriche e grandi capannoni. 

«Il mondo pre-transizione era basato sullo sfruttamento indiscriminato di tutte le risorse della Terra. Si era arrivati a produrre sempre più velocemente e si doveva perciò consumare sempre più velocemente, fino a che il sistema è crollato su sé stesso» mi spiega ancora Nicholas.

In conclusione, arriviamo alla ricostruzione di una discarica: una montagna di rifiuti reali si alza per metri e metri sopra di noi. Accanto un edificio con tante ciminiere. Nicholas lo indica e mi dice: «Quello là è un inceneritore, una delle follie più grandi dell’uomo. Dato che produrre e consumare sempre più aveva fatto sì di accumulare grandi quantità di rifiuti, pensarono bene di bruciarli, andando a peggiorare pesantemente la situazione dell’inquinamento già molto grave»

Mentre torniamo verso casa, sul treno Nicholas si accorge che mi sono fatto più cupo e pensieroso e mi dice: «So che vedere tutto questo non è stato bello, perciò per stasera ho pensato a qualcosa per tirarti un po’ su il morale» e sorride.

lunedì 13 luglio 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen Rufu - parte 9/13



Progetto Crono. 

Giorno quattro. 

Sono tornato in biblioteca e ho ripreso lo studio dei documenti da dove mi ero interrotto. 

Negli anni successivi, i primi anni trenta, si è andato formando la cosiddetta “rivoluzione invisibile”. Sempre più persone si sono unite spontaneamente condividendo soluzioni, saperi, affetti, espedienti. Sono state buttate rapidamente le basi di una nuova cultura, le persone di ogni parte del pianeta hanno capito che per continuare a vivere in pace e serenità avrebbero dovuto recuperare molto dal passato, ma avrebbero dovuto anche trasformare il loro stato interiore. Una nuova filosofia di vita e una nuova visione del mondo si sono diffuse, prima a macchia di leopardo, poi sempre più efficacemente in una rete di relazioni cuore a cuore, di miriadi di cambiamenti individuali che si sono rispecchiati in un cambiamento globale. 

Questa epoca, gli anni trenta, fu poi battezzata dagli storici “La Grande Transizione”, dove la parola d’ordine era la sostenibilità ambientale, economica e sociale della civiltà umana, in breve la felicità di tutto il genere umano e di tutto il suo ambiente. 

Come manifesto di questa transizione fu scelta la massima gandhiana: “Sii il cambiamento che vorresti vedere nel mondo”, e uno dei testi che ha più rappresentato e influenzato questo processo di cambiamento è stato un libro scritto anni e anni prima, attorno al duemilatredici e che sintetizzava con efficacia le basi spirituali, culturali e tecniche del cambiamento. Questi principi sono stati poi raccolti nella Carta del Pianeta Terra che oggi tutti i bambini conosco a memoria. 

È stata poi scelta la data della Conferenza di Budapest del ventisei ottobre duemilatrentasei, dove è stata presentata ufficialmente la Carta a tutto il mondo, come ricorrenza da festeggiare in onore del cambiamento in atto, data che poi ha preso il nome di “Giorno del Risveglio”. 

Gli stili di vita sono stati stravolti, la tesi di fondo era che la felicità e il benessere umano dipendono in minima parte da aspetti materiali e in larghissima parte da aspetti interiori e di relazione. Perciò l’economia è passata dall’essere il semplice scambio di beni e servizi sempre più abbondanti, a riguardare essenzialmente il benessere psico-fisico umano, considerando ogni minimo impatto sull’ambiente. Sono state prese decisioni drastiche e risolute. Sono stati dismessi interi reparti produttivi, lo stesso sistema industriale è stato fortemente ridimensionato, tante tipologie di industrie sono totalmente scomparse. 

Ho trovato un articolo particolarmente curioso sul periodo della Grande Transizione. 

Ne riporto un pezzo: “Comunque la parte più interessante è stato il lavoro svolto dalle centinaia, forse migliaia, di associazioni culturali e ricreative che hanno fornito sempre nuovi spunti di riflessione per cambiare la visione distorta della vita e condurre l’uomo a un’esistenza molto più semplice, molto più genuina, molto più vera”. 

E ancora: “Una delle caratteristiche più importanti della Grande Transizione è stata la totale assenza di personaggi di carisma, di rilievo, nessun tipo di leader, locale o mondiale, ha guidato la transizione degli anni trenta: è stato forse un fenomeno interamente elaborato e gestito dalla coscienza umana collettiva? O forse dalla forza invisibile che permea l’intero cosmo?”. 

Durante gli anni quaranta si sono manifestati i primi effetti positivi della transizione. Il primo febbraio del duemilaquarantuno viene oggi festeggiato come giornata mondiale della pace e della felicità. In tale data si festeggia, infatti, la cessazione dell’ultimo conflitto sul pianeta. Molte foreste sono state recuperate, molti terreni sono tornati fertili, il livello dell’oceano ha smesso di crescere e il quantitativo di anidride carbonica in atmosfera ha cominciato a stabilizzarsi e poi a decrescere rapidamente. 

Solo alcune isole nel Pacifico, dove l’Onu, la Nato e l’OISFU e tutti i principali potenti del mondo si erano rifugiati con enormi scorte di risorse strategiche, non erano state minimamente intaccate dalla Grande Transizione degli anni trenta, un movimento di trasformazione che aveva raggiunto persino i paesini montani più sperduti e le aree più remote. Queste isole, in gran parte artificiali, erano diventate conosciute con il nome di “isole dimenticate”, i luoghi dove ancora si pensava e si viveva come nel secolo precedente, alle dipendenze dei soldi, delle macchine, del petrolio, e con stili di vita nocivi sotto molti punti di vista. 

L’epoca successiva alla Grande Transizione è stata denominata da molti storici l’epoca di “Kosen Rufu”, un termine che è diventato popolare sul finire degli anni quaranta. Kosen Rufu è un termine giapponese che sta per “propagare in modo ampio” e si riferisce alla diffusione su scala mondiale della filosofia del buddismo per il rispetto e la sacralità della vita. In generale, è andato a indicare una nuova fase storica nella quale l’uomo ha abbandonato l’ambizione di un progresso materiale eterno e la cieca fiducia nella scienza e nella tecnologia per dare libera espressione all’illimitata interiorità di ogni essere vivente, possente espressione della “Legge Universale”. 

A quanto pare, lo stesso concetto di Dio, o di una qualsiasi forma divina distaccata dall’uomo è stata superata, e la maggior parte delle religioni e delle filosofie spirituali fanno riferimento a una “legge universale”, detta anche “legge cosmica” o “legge mistica”: il fondamento della vita e di tutto ciò che si manifesta sotto forma di fenomeni, percettibili o impercettibili. 

La Grande Transizione ha visto anche la fine delle forme di governo degli Stati-Nazione, l’umanità è riuscita nell’utopia di darsi un’organizzazione non piramidale, in cui le varie comunità sono largamente indipendenti e strettamente interconnesse tra di loro. L’amministrazione, la politica, l’economia e la vita sociale in genere sono tutte strutturate su base locale. Esistono nel mondo milioni di macroregioni, alcune non formalmente costituite, che rappresentano la base organizzativa dell’intero pianeta. 

C’è un concetto che viene ripetuto in molti dei testi che ho letto. Ovvero che l’unico modello di sviluppo possibile è quello che non prende in considerazione nessun modello come riferimento: perché, riporto le parole esatte del libro, “l’unico discriminante possibile è la felicità di ogni essere umano, e la felicità di un individuo, per essere tale, non può assolutamente essere in contrasto con la felicità di un altro individuo o del suo ambiente, perché tutto è unito, interconnesso. Perciò, solo un mondo in cui tutti possono realizzare i propri sogni senza creare contrasti è un mondo che ha un futuro”. 


Ho fatto tardi in biblioteca. 

La bibliotecaria ha detto allora a me di chiudere la biblioteca una volta che avessi finito, perché lei se ne andava a casa. Io le ho chiesto se non aveva paura che portassi via dei libri o che combinassi qualcosa di male. Lei ha riso, come se fosse un gioco. 

Prima di andare a dormire, ho passeggiato al chiaro di luna per i sentieri della città, tra gli alberi e le case, tra cespugli selvatici e orti condivisi. Come è possibile che il mondo sia stato stravolto in così poco tempo? Allora è davvero possibile un cambiamento inimmaginabile? Forse non c’è alcun bisogno di tecnologie fantascientifiche o di colonizzare altri pianeti per continuare a vivere? 

Tutti gli scenari che avevano previsto gli scienziati non si sono verificati: né l’estinzione dell’essere umano, sicuramente la peggior ipotesi, anche se è stata sfiorata, né la colonizzazione dello spazio, né tantomeno l’affermarsi di supertecnologie salvifiche. 

Forse è stata proprio l’illusione che ci dovesse essere una ragione, la ragione dell’uomo dominante, il progresso lineare e incontrastato dell’uomo, un’unica strada per un mondo migliore, a metterci davanti ai limiti del pianeta e al rischio della nostra fine. E forse è stato proprio grazie a questo che abbiamo deciso di svoltare, di non inseguire più nessuna direzione specifica. 

Non ho risposte per adesso, solo riflessioni. Ma sono certo che quando tornerò indietro nel tempo, e avrò concluso la mia missione, nulla sarà più come prima. 

martedì 7 luglio 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen Rufu - parte 8/13



Progetto Crono.

Giorno Tre

Oggi sono andato alla biblioteca, nell’archivio storico, e mi sono dedicato alla lettura di articoli di giornale e almanacchi. 

Queste le informazioni di rilievo che ho potuto ricavare.

Alla metà degli anni venti la situazione mondiale è precipitata. L’episodio emblematico di questo tracollo è stato la carestia dell’estate del duemilaventicinque. Disastri ambientali di vario genere e l’inaridimento dei terreni sovrasfruttati e imbottiti di prodotti chimici hanno causato la più grande tragedia di tutta la storia dell’umanità. In tutto il mondo si contano un miliardo e mezzo di vittime alla fine del decennio. Disordini e guerre civili hanno destabilizzato paesi come la Cina, l’India, il Brasile e il Messico. A Rio de Janeiro nel settembre del duemilaventisei i militari sono intervenuti per sedare una rivolta popolare che reclamava prezzi più bassi per il cibo e l’acqua, oltre mille persone sono state uccise in un solo giorno. Le nazioni unite e l’Onu, assieme agli organi direttivi dell’OISFU sono stati trasferiti nel mezzo dell’Oceano Pacifico in una base militare super fortificata su un arcipelago di isole artificiali indipendenti e autonome. 

Tante sono state le crisi di governo. Molti paesi occidentali sono passati alla dittatura militare o di una ristretta oligarchia finanziaria. L’Unione Europea è stata divisa in tre aree di influenza: la zona nord agli americani, quella est alla Russia, mentre la fascia mediterranea è diventata una colonia delle alleanze arabe. 

Stati Uniti assieme a Canada, Inghilterra e Australia hanno dichiarato guerra al blocco asiatico composto da Cina, Russia e Corea. La terza guerra mondiale era inevitabile. L’alleanza araba composta da Iran, Siria e Egitto è subentrata come terza controparte. Gli ultimi mesi dell’anno duemilaventotto hanno visto bombardamenti diffusi nelle principali città cinesi e russe da parte degli americani. Nel gennaio del duemilaventinove Washington è stata rasa al suolo da una bomba nucleare cinese. L’America ha subito risposto con due bombe nucleari, una ad Hong Kong, l’altra a Shangai. Cinquanta milioni di morti in pochi giorni. 

Qualcosa però è successo alla fine degli anni venti. Qualcosa che non è facile ricostruire dai documenti, perché non si sa, con esattezza, cosa sia accaduto. Proprio quando il crollo della civiltà umana era sembrato ineluttabile, un cambiamento ha cominciato a manifestarsi. Milioni e milioni di persone di tutti i paesi, di tutte le estrazioni sociali, di ogni cultura, sono scesi nelle piazze, accampandosi con tende e mezzi di fortuna, gridando il loro no alla guerra, per giorni e giorni, per mesi, con il freddo con la pioggia, sotto il sole. Giovani, anziani, uomini, donne, malati. Tutti hanno partecipato. Alcuni storici l’hanno chiamato il movimento “Delle mani alzate”, tutte le persone in ogni parte del mondo manifestavano nelle strade e nelle piazze semplicemente sedendosi a terra e levando le braccia in alto, in atto di resa, ma anche come segno di non voler essere considerati complici di tutta la violenza che stava avvenendo.

Questa è la sintesi di quello che ho potuto studiare oggi nei documenti della biblioteca. Domani tornerò per proseguire con questo lavoro di documentazione storica. 



Progetto Crono.

Giorno tre.

La sera sono uscito con Nicholas e la sua famiglia. Mi spiegano che ogni sera ci sono iniziative culturali differenti. Il lunedì solitamente è il giorno della poesia e della letteratura, martedì il giorno della pittura e della scultura, mercoledì il giorno della musica, giovedì del teatro, venerdì del cinema e il sabato la danza, mentre la domenica è dedicato alla spiritualità e alla meditazione.

Perciò oggi tocca al teatro e Nicholas è emozionato come un bimbo per il debutto della sua nuova commedia.

«L’ha scritto il babbo insieme allo zio» mi dice Jeremy sorridendo.

Nel piazzale delle arti tutto è stato sistemato per lo spettacolo e molta gente si scambia saluti e parole cariche di gioia. 

Suellen, la compagna di Nicholas, mi spiega che tutte le attività culturali sono a spese della comunità, che nessuno viene retribuito per il suo impegno, tutti sono invitati a esprimersi attraverso le varie compagnie culturali.

«Ci sono pittori, scultori, cantanti, scrittori di tutte le età e per tutti i gusti. Ognuno si esprime a modo suo. Tutti sono artisti creatori, ma anche spettatori. In passato molte guerre e violenze sono state fatte perché le persone non riuscivano a esprimere il loro lato creativo. Per questo adesso tutti hanno occasione di trovare il loro miglior modo di esprimersi e di farsi ascoltare. Non esistono più le celebrità come una volta, siamo un po’ tutti speciali, ognuno a suo modo» 

Inizia lo spettacolo. 

La scenografia è semplice e l’atmosfera suggestiva. Le scene si susseguono in un crepitio di risate. Le persone si divertono e si scambiano commenti. 

Finito lo spettacolo il pubblico esplode in uno scroscio di applausi e di incitamenti. Gli attori sul palco ringraziano, proprio come fossero delle vere e proprie star di successo. 

Quando rivedo Nicholas, ancora con il trucco sulla faccia, mi chiede spontaneamente:

«Ti è piaciuto?» 

Io sono assolutamente sbalordito e non riesco a dare una risposta completa.

«Tu invece in che tipo di attività creativa ti piace cimentarti?» mi chiede.

«Io non ho mai fatto nessuna attività artistica in vita mia» rispondo, pensando al mio addestramento militare. 

Mentre torniamo a casa a piedi, mi si avvicina e mi dice:

«Domani vorrei mostrarti un posto fuori città, se ti va. Che ne dici?»

Dato che domani voglio tornare in biblioteca, ci accordiamo per il giorno successivo.


giovedì 2 luglio 2015

Il pianeta Terra ai tempi di Kosen Rufu - parte 7/13





Progetto Crono.

Giorno due.

Dopo una colazione a base di frutta, ci rechiamo al posto di lavoro di Nicholas. In bicicletta.

«Ma quando piove come fai ad andare in bicicletta?» gli chiedo curioso.

«Mi copro» risponde sbalordito «abbiamo impermeabili. Anche se molti dei posti di lavoro quando piove molto o c’è mal tempo non aprano neanche, se non è necessario»

Nicholas lavora in un ufficio che si occupa di riparare le case e ogni edificio. Lavora quattro ore al giorno, ma alterna tre giorni di lavoro a tre giorni liberi. Mi dice che nessuno lavora di più. Mi dice anche che il suo stipendio è più che sufficiente per la sua famiglia, perché la maggior parte dei servizi sono gratuiti, compreso le case, il cibo e l’acqua. Ma la cosa che mi sbalordisce di più è che lo stipendio non è fatto di soldi.

«I soldi sono stati superati negli anni trenta. Abbiamo “i punti”, sono come dei buoni, possono essere spesi solo per certe cose, ma nella maggior parte dei casi, non ne abbiamo bisogno, voglio dire nella vita di tutti i giorni non li usiamo perché otteniamo gratuitamente quello di cui abbiamo bisogno e condividiamo e scambiamo quello che abbiamo o produciamo. I punti li usiamo solo per comprare cose che vengono prodotte dagli artigiani, o le tecnologie che vengono dai laboratori»

Entro nel suo ufficio. Sulla scrivania ci sono tanti fogli e una macchina da scrivere.

«Non hai un computer?»

«No, nel mio lavoro non ne ho bisogno. Usiamo la tecnologia dove è necessaria e soprattutto il grado di tecnologia adatto per una determinata applicazione. Io non uso molta carta e mi occupo principalmente di coordinare il lavoro di riparazioni in base alle segnalazioni che abbiamo del mio distretto»

Mi presenta dei colleghi e mi offre un caffè.

«Come vedi non usiamo più bicchieri di plastica. L’usa e getta è sparito da diversi decenni. È stato prima scoraggiato in tanti modi e poi bandito per legge. Tutto viene riusato più volte, e quando è logoro viene riparato o recuperato»

«Nessuno indossa la giacca e la cravatta?»

«Ah, non va più di moda da un pezzo. A dire il vero non esiste più una moda ben precisa, ognuno indossa ciò che gli piace. Pensa ieri ho visto il sindaco di Gardenia tenere un discorso in aula con una maglietta arancione»

Chiedo a Nicholas dove posso trovare delle informazioni dettagliate sulla storia e sulla situazione mondiale attuale. Nicholas mi dice che in biblioteca posso trovare tutte le informazioni che cerco, su libri e filmati. 



Progetto Crono.

Giorno due.

Nel pomeriggio i figli di Nicholas mi invitano ad andare con loro al lago. Io accetto. 

Rimando a domani la visita in biblioteca. Penso che anche i giovani possono essere una fonte di informazioni che possono essere utili al progetto Crono. 

In una piazza prendiamo uno strano mezzo a pedali, composto di più carrozze, come se fosse un treno dove ogni passeggero fa la sua parte pedalando. 

«È la prima volta che prendi un trenociclo?» mi chiede Jeremy, il figlio più piccolo.

«Sì, dalle mie parti non esistono. Ma è divertente mi sembra di tornare bambino»

Ha dei sistemi di trasmissione molto semplici, simili a quelle delle biciclette, il telaio è molto leggero e ciò gli permette di viaggiare velocemente e senza fatica. 

Poco dopo usciamo dalla foresta e si aprono dei campi, dove non mancano però alberi, per lo più da frutta. 

Scendiamo, dopo aver chiamato la fermata con un campanello, al segnale del quale tutti smettono di pedalare e ci salutano, augurandoci buona giornata. 

Ci incamminiamo per un sentiero terroso, tra campi di girasoli. Mi avvicino a Faust, il figlio maggiore, avrà circa diciotto anni o forse meno. 

«Voi ragazzi non andate a scuola?» chiedo.

«Ah, no. Qua scuole non ce ne sono più. L’ultima scuola della zona è stata chiusa quando ero piccolo. Abbiamo i centri di cultura e i laboratori, ma i ragazzi fino a diciotto anni imparano per lo più con le attività organizzate un po’ ovunque. Vedi là?»

Mi indica un gruppetto di ragazzi che giocano assieme a degli adulti con delle palle di varie dimensione e colore.

«Quello è un gruppo culturale, deve essere una lezione di matematica o geometria»

«Perciò i ragazzi non devono andare a scuola, mai?»

«No, imparano molto meglio se non sono obbligati a stare a scuola. Senza alcuno sforzo si imparano tante cose, senza accorgersene, in modo naturale. Mio padre mi ha parlato della scuola e dei compiti a casa, so cosa sono, ma adesso sarebbe impensabile tornare a quei metodi di educazione»

Arriviamo al lago. Una distesa d’acqua pacifica, completamente immersa nella natura. Papere e uccelli di ogni genere popolano la superficie del lago. Alcuni vecchietti pescano sulla riva. 

Prendiamo una piccola barca e ce ne andiamo a fare un giro del lago. Tra i canneti mormora la vita. 

Al ritorno dal lago, sulla strada, Faust si ferma a parlare con una ragazza che non conosce. Sento che le chiede il nome e che si scambiano sorrisi. 

Allora domando a Jeremy che cosa stia facendo suo fratello, perché si trattenga con quella sconosciuta.

«Non hai visto? Aveva un fiore azzurro sul vestito» mi risponde.

«Che significa, un fiore azzurro?»

«Ah, non lo sai? Tutte le persone che desiderano fare l’amore e che vogliono incontrare qualcuno appendono un fiore azzurro sul vestito, così che tutti possano saperlo. Dalle vostre parti non si usa fare così?»

Mi stupisce che un ragazzetto come Jeremy parli del sesso senza alcuna forma di pudore o vergogna.

Mentre continuiamo a camminare verso casa, ne approfitto per passare lo sguardo sulle persone che incontriamo. Molti di loro hanno un fiore azzurro al petto, sia uomini che donne, e nessuna forma di imbarazzo accompagna i loro volti. Ne noto uno con un fiore giallo. 

«E il fiore giallo, che significa?»

«Il fiore giallo lo portano le persone che preferiscono la compagnia dello stesso sesso. Poi ci sono anche quelli che portano fiori bianchi perché sono alla ricerca di nuove amicizie. Mentre quelli con i fiori rossi sono sposati ma comunque desiderano esprimere il loro amore con altre persone»

«Vuoi dire che qua anche chi è sposato può andare con altre persone?»

«Certo, è normale. Da voi non è così?»

«Ma non è tradimento? Le mogli e i mariti poi non sono gelosi?»

«E perché dovrebbero esserlo, se c’è amore. Come fai ad amare solo una persona, scusa? Non sarebbe quello tradimento? Ci sono molti che hanno più mogli o più mariti»

«Quindi non esistono famiglie?»

«Come no, tante, tantissime famiglie. Molte sono intrecciate tra di loro. C’è chi si ama e convive, c’è chi si ama ma non convive insieme. Dalle tue parti non funziona così?»

«Non esattamente» rispondo io volendo troncare la conversazione.